Martedì 29 Aprile 2014 - Libertà
Possente César Brie triplo se stesso in cerca di approdo
piacenza - Un sonno agitato, divaga la mente di un mendicante di sogni. Un uomo farfuglia nel dormiveglia, scorre nei pensieri il tradimento di Pietro a Gesù. Quell'uomo è imprigionato in un ruolo. In un ricordo, tra i resti di un amore, complice di un'emozione zoppicante, ancorato ad una confessione mai espressa.
Un incubo. Il risveglio è impetuoso. Riemerge alterato, scosso. L'uomo è un semplice attore che scopre di essere stato trasformato in prete. Il sacerdote permette all'attore di conversare con Dio in cui non crede. Da qui inizia un dialogo a tre, l'attore, il prete e Dio, fusi in un solo soggetto che ha il volto di César Brie, il carismatico attore e regista argentino. Lui solo in scena con il suo celebre Il mare in tasca, lo splendido e feroce monologo presentato alla Sala delle Muse in via San Siro nell'ambito della stagione allestita dalla Società Filodrammatica Piacentina (con il sostegno di Fondazione di Piacenza e Vigevano, Provincia e Bulla Sport).
Un testo possente, sanguigno, che sfrutta il gioco metateatrale ("teatro dentro il teatro"). Poesia abrasiva. Anche il pubblico diventa protagonista specchiandosi sulla scena reale dove è rappresentato da una manciata di marionette. Si sovrappongono le voci, le sembianze sfumano. Un doppio, un triplo se stesso in cerca di approdo.
L'azione si sviluppa in una sacrestia ma potremmo trovarci anche sul palcoscenico di un teatro o su quello più impegnativo della vita quotidiana. Realtà o finzione? Grottesca illusione. Tra sacro e profano. Una liturgia molto laica. L'istrionico César Brie, una delle più autorevoli firme nel panorama teatrale internazionale, era in questi giorni a Piacenza per tenere uno stage, molto atteso, alla "Filo". Occhi di fuoco, provocatorio, dissacrante, il tumulto del "teatrante di strada", corpo e anima, rabbia e sfrontatezza.
Brie crea la storia, la vive in diretta, sbuffa, si contorce. Portentoso il suo incedere drammatico. Ma César usa anche il registro ironico e lo fa con grande perizia. Brie rivolgendosi a se stesso: «Hai sempre detto che il teatro è fatto di relazione. E sei qui da solo! ». Il "solitario", in abito talare, "assolve" da peccati veniali il pubblico in sala, numeroso e attentissimo. Lo perdona, ad esempio, per aver fischiato Diego Armando Maradona. La scena è scarna. A riempirla una sedia, un letto, un paio di bauletti apparecchiati come una tavola, la gamba di un tavolo portata come una croce, ma anche una striscia di tessuto blu per raffigurare il mare. E poi i chicchi di riso disseminati sul pavimento. Appeso in un angolo un grande vestito bianco, da sposa. E' lo spunto per descrivere la madre. Brie si leva la tunica per indossare quel "cencio" da nozze. La tunica cade ma sotto non cambia nulla, ne esce fuori un'altra identica. Poi la domanda che destabilizza: «Ma di cosa parla questo spettacolo? », chiede con fare stentoreo Dio. Forse d'amore. Amore assoluto, spezzato, biasimato, rassegnato, rancoroso, complicato, trasognato. Sentimenti che arrancano, affetti incondizionati sfregiati dal dolore.
Qui Brie riesce ad affrontare un argomento delicatissimo come quello dell'eutanasia. Momento molto toccante. L'attore poi si rivolge alla platea: «Cerco un porto e spero di trovarlo nei vostri sguardi». César Brie si dirige verso una porta, un ultimo sguardo alla vita e lascia il palco. Gli spettatori esplodono in un lungo e caloroso applauso.
Matteo Prati