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Mercoledì 30 Aprile 2014 - Libertà

Quando la scuola d'arte era sede del Museo civico

Una tavola rotonda per ripercorrere la nascita del Museo civico e la storia delle sue collezioni

La nascita del Museo civico e la storia delle sue collezioni saranno ripercorse nella tavola rotonda che inaugurerà il Gazzola Day la mattina del 10 maggio all'Auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano: «Vi parteciperanno i direttori e i responsabili dei musei e delle collezioni un tempo collocate al Gazzola, l'assessore alla cultura del Comune di Piacenza e i rappresentanti delle Soprintendenze ai beni architettonici e artistici» annuncia Alessandro Malinverni, conservatore del Museo Gazzola. Nel pomeriggio a Palazzo Gazzola si potrà visitare la scuola d'arte, con docenti e allievi al lavoro, il museo, nonché la mostra fotografica curata per l'occasione da Malinverni nel cortile d'onore «con le immagini del museo e delle opere che erano lì esposte: materiale archeologico della Prevostura della Cattedrale; dipinti (tra i quali l'Ecce homo di Antonello da Messina) e arazzi del Collegio Alberoni; quadri, sculture, oreficerie e mobili dell'Amministrazione dell'Ospedale Civile; opere di privati donate o affidate in deposito; dipinti e armi del Gazzola».
Le vicende che portarono alla costituzione del Museo civico sono saldamente intrecciate con l'impegno professato da alcuni illuminati piacentini per tornare in possesso di alcuni beni sottratti nei secoli alla città. Le tappe di questo articolato processo, che non si è concluso, sono state ricostruite da Malinverni nel saggio "La "Primogenita" spogliata" apparso sul numero 14 del 2011 (Nuova serie II) della rivista "Crisopoli", bollettino del Museo Bodoniano di Parma.
Il testo, che riporta in appendice numerose lettere inviate dall'inesausto ricercatore colornese Glauco Lombardi allo studioso piacentino Stefano Fermi, dà conto di come si svolsero le trattative tra Stato e Comune di Piacenza, promosse, con alterno fervore, da una "Primogenita" rimasta delusa - osserva Malinverni - dal ruolo che le era stato attribuito dopo l'Unità e desiderosa di riaffermare la proprietà di "Palazzo Farnese, delle mura e delle fortificazioni, della quadreria farnesiana che era stata trasferita a Napoli da Carlo di Borbone tra il 1734 e il 1736 (i mobili e gli oggetti essendo ormai - precisa Malinverni - irrintracciabili), gli arredi di Palazzo Mandelli dispersi nel 1866 nelle residenze sabaude di Venezia e Firenze, infine i documenti d'archivio relativi alle residenze ducali di Piacenza".
Nella nostra città le rivendicazioni si "legarono strettamente alla questione del Museo civico".
Un'istituzione che prima del 1903 praticamente non era mai esistita, nonostante alcuni precedenti citati da Malinverni, quando nel 1693 il duca Ranuccio II, affezionato a Piacenza, aveva riunito iscrizioni e lapidi in una sorta di museo nell'Arsenale detto di Fodesta (chiuso però subito nel 1694, alla morte del sovrano) o quando, a inizio Settecento, l'abate Alessandro Chiappini aveva organizzato un allestimento permanentemente di cimeli ed epigrafi nella canonica di Sant'Agostino o ancora quando, in epoca napoleonica, Giampaolo Maggi e Luigi Bonzi, accarezzarono l'idea, che non si concretizzò, dell'utilizzo di un ambiente adiacente la biblioteca accanto alla chiesa di San Pietro dei gesuiti per accogliere un più ampio museo.
Tra il 1812 e il 1813 si fece intanto strada l'idea di situare il museo a Palazzo Farnese: lì sarebbero potute confluire le opere provenienti dalle chiese e dai conventi soppressi. Non si realizzò. "Le iscrizioni e gli oggetti d'arte raccolti lungo l'Ottocento, insieme a quadri, monete e medaglie donati da privati", approdarono nel 1885 negli spazi della Biblioteca civica (dove rimane tuttora la Biblioteca comunale Passerini Landi), prima che nel 1903 con l'inaugurazione del Museo civico trovassero casa a Palazzo Gazzola. Si trattò comunque di una soluzione vista ben presto come provvisoria.
Il conte Dionigi Barattieri, artefice della collezione di carrozze donata nel 1948 dal nipote al Comune, nel 1909 denunciò "l'allestimento affastellato, la cattiva gestione e la mancata promozione della sede museale", ma ad alimentare le polemiche contro l'alloggiamento del patrimonio storico-artistico civico al Gazzola concorse un ulteriore fattore: senza disporre di un contenitore adeguato, non era pensabile perseguire l'iniziativa di richiedere a gran voce la restituzione delle opere andate disperse lungo la penisola. Per cui, da un certo punto in poi, la rivendicazione di Palazzo Farnese occupato dai militari viaggiò parallelamente a quella delle tele, che in gran parte tornarono grazie all'interessamento del ras Bernardo Barbiellini Amidei: "Le gerarchie fasciste seppero intuire il riscontro positivo derivante, in termine di popolarità, da un fattivo sostegno alla difesa dei valori e del patrimonio municipali".

An. Ans.

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