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Martedì 16 Marzo 2004 - Libertà

D'Andrea, e il jazz sale in paradiso

Piacenza fest - Pubblico folto e calorosi applausi al Nicolini per la trascinante perfomance del pianista. Un viaggio nel mondo di Monk, riletto con tonalità blues

Me lo aspettavo. Immaginavo che l'esibizione al Piacenza Jazz Fest di Franco D'Andrea - un pianista che ha fatto la storia del miglior jazz tricolore, e che le stupefacenti registrazioni "in solitudine" del 2002 mostrano ai vertici tanto della sua carriera quanto dell'attuale scena europea - mi avrebbe messo in difficoltà come critico, lasciandomi presto a corto di superlativi. Ciascuno degli spettatori che l'altra sera si erano dati appuntamento al Conservatorio Nicolini, del resto, sperava in una serata memorabile, complice il programma di un concerto il cui titolo, Franco D'Andrea plays Monk, ricalcava quello del formidabile disco pubblicato per Backbeat - Philology che (dopo gli standards, e Gato Barbieri, e il vecchio compagno d'arme Phil Woods, e l'amatissimo Duke Ellington) ha visto la monumentale epopea interpretativa "per pianoforte solo" di D'Andrea soffermarsi sui temi più celebri di Thelonius Monk.
Eppure la performance offerta al Nicolini dal pianista meranese è riuscita ad andare perfino al di là di simili aspettative.
"Di concerti in vita mia ne ho visti tanti, ma ben pochi come questo!" era il commento che ricorreva, all'uscita, tra gli ascoltatori che andavano ritrovando con fatica la parola dopo essere rimasti ammutoliti per un'ora e mezza.
Difficile raccontare a parole un concerto di cui gli appassionati piacentini continueranno a parlare probabilmente per anni e che costituisce certo una delle vette di questa prima edizione del Jazz Fest (organizzato dal Piacenza Jazz Club presieduto da Gianni Azzali in collaborazione con assessorato alla cultura, Provincia, Fondazione di Piacenza e Vigevano e Fondazione Libertà).
Ma qualcosa si può dire sul particolare rapporto che D'Andrea intrattiene con Monk, il compositore e pianista che cambiò la faccia del jazz come pochissimi altri suoi protagonisti, il Grande Eccentrico per eccellenza divenuto uno dei classici per definizione di questa musica.
Per D'Andrea, innanzitutto, il grande Sphere è una scoperta tardiva, ma divenuta rapidamente centrale nella sua ispirazione. "Fino ai 40 anni passati, io Monk semplicemente non l'ho capito: mi sembrava una cosa fantastica e lontana - racconta D'Andrea con semplicità - Ho cominciato a entrare sulla sua lunghezza d'onda suonando col trombettista Enrico Rava, che per Monk ha un'adorazione. Enrico mi invitava a spostare la mano sinistra dal centro della tastiera, a esplorare il registro più grave: i miei modelli in questo, nei primi tempi, erano Hampton Hawes e altri seguaci di Bud Powell. Ma a un certo punto la mia ispirazione divenne Monk, che partiva sempre da figurazioni ripetute ai bassi per creare una musica che ancora oggi sconvolge per la sua novità".
La lezione di Monk, nel colto e personalissimo mondo musicale di D'Andrea, è vista attraverso la lente del jazz tradizionale (passione giovanile dell'artista di Merano, che tra un'avventura "sperimentale" e l'altra torna sempre a rimeditare i classici degli anni Venti).
Questa angolatura critica ha contraddistinto anche La musica di Thelonius Monk tra aforismi, dissonanze e blues , l'interessantissima master class pomeridiana tenuta in Conservatorio, poche ore prima del concerto, da D'Andrea e dal musicologo Luca Bragalini, studioso della figura e dell'opera di Monk tra i più importanti in Italia.
Chiave di volta della lettura di Bragalini, che D'Andrea ha illustrato con abbondanza di esempi musicali (ai quali si sono aggiunte registrazioni di Monk in persona, alle prese con uno standard come I should care e con una tarda Blue Sphere incisa nel 1971) è stato uno Sphere ritratto come un musicista mai contemporaneo a se stesso, proiettato nel futuro e insieme radicato nel passato più ancestrale, soprattutto per quella prassi di "improvvisazione tematica" che rievocava i vecchi eroi pre-bebop almeno tanto quanto anticipava Ornette Coleman.
Ma niente poteva illustrare l'idea di questo atemporale mosaico di stili e di ispirazioni meglio delle improvvisazioni di D'Andrea, che nel concerto serale ha fatto risplendere nella sua luce più pura quella Grande Sintesi che va perseguendo con coerenza pari solo alla sua sensibilità e al suo magistero tecnico: un pianismo alchemico, quintessenziale, che mette insieme le influenze più diverse guardando alla Storia come a un immenso archivio di idee e al tempo stesso lavora togliendo, limando sostituendo ove possibile la pausa all'abbellimento, cercando il più attraverso il meno (nascondendo con eleganza all'ascoltatore anche la fatica di certi passaggi di mostruosa difficoltà, come quelli suonati in "legato" e "staccato" contemporaneamente). Ecco così che classici come Monk's mood, Blue Monk, la celeberrima 'Round midnight e il quasi altrettanto celebre Misterioso, Well you needn't e una sublime Pannonica fino ai bis con Straight no chaser ed Evidence si tingono di colori caleidoscopici, di memorie
stride piano, di contrappunti quasi bachiani, di meravigliosi giochi di ritmi, di palpitanti sfumature, in tale abbondanza da lasciare ogni volta allo spettatore il rimpianto che non si possa riascoltare tutto da capo. D'Andrea ha descritto la sua esibizione piacentina come "una buona serata". Per chi conosce l'estrema umiltà e il carattere iper-autocrico di questo artista, questa è la miglior prova che serate così non capitano spesso e, quando capitano, chi c'è è fortunato.

Alfredo Tenni

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