Mercoledì 11 Dicembre 2013 - Libertà
In Fondazione l'analisi della famosa lettera a Francesco Vettori nel 500° del "Principe", Tarsi e Frare in cattedra, letture di Dattilo e Zanoletti
piacenza - «Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch'io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro».
Chissà se il pubblico intervenuto ieri pomeriggio all'Auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano ha potuto assaporare - ascoltando le letture a cura di Salvino Dattilo e Antonio Zanoletti - gli stessi sentimenti che Niccolò Machiavelli, il 10 dicembre del 1513, esattamente cinquecento anni fa, confidava a Francesco Vettori di provare quando, al termine delle sue giornate, si metteva in rispettoso colloquio con i classici, trovando in loro quel conforto che le traversìe della vita e i rivolgimenti della politica non permettevano al letterato fiorentino di sperimentare più nell'attività pubblica.
Dopo l'articolata introduzione di Pierantonio Frare, docente all'Università Cattolica del Sacro Cuore, a fornire ieri l'inquadramento della celebre missiva nel contesto storico e biografico del suo autore ha provveduto la relazione di Maria Chiara Tarsi, dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Ridotto al confino nella piccola tenuta dell'Albergaccio a Sant'Andrea in Percussina nei pressi di San Casciano Valdipesa, dopo aver subito il carcere e la tortura accusato di aver congiurato contro i Medici, Machiavelli raccontava, alternando toni faceti e gravi, le sue giornate all'amico di poco più giovane di lui, appartenente alla nobile famiglia dei Vettori, dando prova di consumata abilità letteraria. Non ci è pervenuto in realtà l'autografo né di questa, né delle altre lettere che compongono l'ampio epistolario del letterato. L'epistola del 10 dicembre è in stretta relazione con la lettera inviata da Roma dal Vettori a Machiavelli il 23 novembre 1513. La risposta di Niccolò è giocata - ha osservato Tarsi - sul contrasto tra le sue misere condizioni e quelle ben più agiate dell'amico ambasciatore, che nell'Urbe poteva contare sulla compagnia di uomini colti. Invece Machiavelli doveva sopportare ristrettezze economiche e la frequentazione di gente rozza, lontana da lui per cultura e aspirazioni, trascorrendo spesso le giornate in solitudine. Tarsi ha rilevato quasi un autocompiacimento nella descrizione che indugia sull'attuale situazione di forzato isolamento e di avvilimento di Machiavelli, alle prese con infime beghe. Da influente e potente che era, Machiavelli si ritrova infatti a mercanteggiare sul prezzo della legna che deve vendere, facendo attenzione a non farsi imbrogliare dal gaglioffo di turno. Il testo amaro del letterato rispecchia comunque - ha annotato Tarsi - più la condizione interiore che l'autore, in quanto San Casciano Valdipesa, posto su importanti vie di comunicazione, era meno selvaggio di quanto potesse apparire nell'epistola. Anche il ritratto che Machiavelli fa di se stesso, sulla scorta di una longeva tradizione, è «volutamente deformato». A spiccare è l'inconciliabilità tra le occupazioni diurne dell'ex segretario fiorentino, che di giorno tocca il fondo della degradazione, e la sera, dove il riscatto si materializza attraverso lo studio, «considerato con un'aura sacrale, di solennità».
La struttura dell'epistola ricalca quella della lettera di Vettori, con differenze sostanziali, per esempio, nelle attitudini verso i classici dei due amici. Per Vettori, ha sottolineato Tarsi, si trattava di un «passatempo improduttivo, con finalità dilettevole»; per Machiavelli la storia aveva invece «un valore conoscitivo», con una vitalità dell'insegnamento degli antichi tale da far superare le barriere spaziali e temporali. L'importanza della lettera del 10 dicembre 1513 sta anche nel suo annunciare la stesura del Principe, che verrà pubblicato soltanto postumo, nel 1532, senza che Machiavelli riesca mai a essere pienamente integrato nelle sue funzioni, quando invece aveva scritto il suo trattato nella disperata consapevolezza di disporre di competenze che non gli venivano però più riconosciute, a causa dei ripetuti rivolgimenti di potere, dalla repubblica ai Medici e ancora alla repubblica.
Anna Anselmi