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Sabato 20 Luglio 2013 - Libertà

Franco Cerri, la poesia suadente del jazz

"Note d'estate": il musicista con la sua magica Gibson a Palazzo Rota Pisaroni

piacenza - Una chitarra da favola, sei corde che parlano di jazz e del talento morbido di un uomo gentile. L'eleganza del jazz, la sua carezza libera. Una magica Gibson che ti offre sorprendenti incastri sonori mentre «cerchi di ingraziartela con il balletto illusionistico delle dita». La Gibson L5 di Franco Cerri, le sue parole, il suo racconto. Il celebre chitarrista milanese ha raggiunto il cortile di Palazzo Rota Pisaroni, sede della Fondazione di Piacenza e Vigevano, per fornire un'esibizione incantevole. L'appuntamento rientrava nel cartellone Note d'estate, allestito proprio dall'ente di via Sant'Eufemia.
Un concerto dalle mille sfumature, una poesia suadente. A "recitarla" c'è un signore di 87 anni dalla verve contagiosa, una leggenda della musica italiana ed europea. Franco Cerri parla lentamente e accarezza un lessico musicale colmo di nostalgie, malinconia e passione. La stessa passione che si leggeva nei pensieri di un ragazzino autodidatta che iniziava negli anni della guerra a strimpellare una chitarra da 78 lire regalatagli dal padre. Franco aveva la paletta, il tocco, l'orecchio. Glielo diceva sempre Gorni Kramer che lo arruolò nella sua orchestra.
Franco Cerri l'uomo "di ringhiera" che meraviglia "scuotendoti" con la delicatezza, il fraseggio denso, il timbro di uno strumento zeppo di idee. Quel signore distinto che ama il be bop e ti si rivolge con un velo di timidezza pur conservando un'aura di autorevolezza che indurrebbe l'interlocutore ad una certa soggezione. Ma Franco Cerri non ama salire in cattedra, guardarti da un piedistallo. E quando entra in scena lo capisci subito: Franco palleggia da 70 anni jazz e umiltà. Traspare in scena ma anche al ristorante, scambiando quattro chiacchiere mentre si gusta una fetta di torta prima di andarsi a masticare standards jazz davanti ad una platea adorante e partecipe.
Il pubblico è lì che lo aspetta. Il loggiato e il cortile di Palazzo Rota Pisaroni sono gremiti. Arriva Franco: magro e ancora scattante, ironico. Sale sul palco, annusa l'atmosfera, prende il microfono per salutare il pubblico: «Non riesco a vivere in maniera distaccata la performance. Il rispetto per chi esce di casa e sceglie di venirci ad ascoltare deve essere massimo. Il pubblico ha i suoi gusti, dobbiamo entrare in sintonia». Non ci vuole molto, a dire il vero, per sintonizzarsi sulle sue frequenze. Qui si suona "alla Cerri": la mano swing non tradisce, armonizzazioni mai banali, melodia soffice. Il suo marchio di fabbrica brevettato negli anni grazie anche alle innumerevoli collaborazioni: da Chet Baker a Django Reinhardt. Roba da non dormirci la notte.
Lo spettacolo dispone di sequenze sonore che disegnano un perimetro abitato da brani di chiara fama. L'avvio con l'intensa Look for the silver lining di Jerome Kern. Sensibilità da primato sostenuta dal contrabbasso di Luca Garlaschelli, schietto e solido, e dall'organo Hammond di Alberto Gurrisi, energico e scoppiettante. Ritmica fluida e spigliata. In scaletta si accomodano l'Henry Mancini de I giorni del vino e delle rose, Bluesette dell'armonicista belga Toots Thielemans, ma anche quella Parlami d'amore Mariù resa immortale da Vittorio De Sica e Roma nun fa la stupida stasera del maestro Trovaioli. Due brani di Duke Ellington suonati in contemporanea, sovrapposti, abbracciati mandano in sollucchero il parterre: I let a song go out of my heart e Don't get around much anymore. In scia arrivano Someday my prince will come dalla Biancaneve di disneyana memoria e But not for me di Gershwin.
Si arriva al finale ma Franco Cerri si riserva un'ultima battuta: «Se i miei cari sapessero che a quest'ora sono ancora in giro a fare musica chissà che penserebbero». Risate e applausi. Con gesto felpato si rimette in grembo la fedele Gibson e regala Take the a train di Duke Ellington.

Matteo Prati

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