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Domenica 24 Febbraio 2013 - Libertà

Riccardo Ruggeri a Piacenza: le mie parole in libertà

Mercoledì prossimo Riccardo Ruggeri sarà a Piacenza. Alle 21 all'Auditorium della Fondazione, in via S. Eufemia, si terrà l'incontro con l'imprenditore-scrittore che presenterà l'ultimo suo libro "Parole in Libertà". La serata sarà aperta da una conversazione di Ruggeri sul tema "1862 e 2012: due anni drammatici" raccontati dai libri "Italica" di Vito Tanzi e "Parole in libertà" dello stesso Ruggeri. Verrà sviluppata l'analisi su come l'indebitamento dello Stato mise in crisi l'avvio dell'Italia Unita e 150 anni dopo la sua sopravvivenza in Europa.
La serata verrà introdotta da Giacomo Marazzi, presidente della Fondazione Piacenza-Vigevano. Interverranno Pierluigi Magnaschi, direttore di "Italia Oggi" e Gaetano Rizzuto, direttore di "Libertà".
Pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore e dell'Editore, la prefazione di Stefano Lorenzettto al libro di Riccardo Ruggeri dal titolo "Parole in Libertà"

di STEFANO LORENZETTO
Una volta Riccardo Ruggeri ha scritto che da quando, anni fa, lo sottoposi a una delle mie sterminate interviste (due intere pagine di giornale), è in preda a una sindrome di Stendhal della quale sarei la causa. La patologia, ha aggiunto, sarebbe stata rafforzata da un «bellissimo pezzo», bontà sua, in cui raccontavo d'essermi fatto sequenziare il genoma all'ospedale San Raffaele di Milano.
Be', non credetegli.
E' vero l'esatto contrario. Leggendo Ruggeri, sono io a cadere in preda al più nobile dei sentimenti che un giornalista o uno scrittore possano provare: l'invidia. Sì. Un'invidia che però non ha nulla da spartire con il rancore, l'astio, la meschinità; un impulso etico ed estetico, purissimo, che sprona lo scribacchino a emendarsi nel ragionamento e nel dettato, a tendere fino allo stremo a quella perfezione che dovrebbe essere, proprio perché irraggiungibile, il nostro unico ideale di vita. Ebbene, quando argomenta, non meno che quando parla e quando scrive, l'autore di questo libro rappresenta per me l'archetipo della perfezione. Immergetevi nelle pagine che seguono e capirete perché.
Lo stile, innanzitutto.
Di una concisione tacitiana, mi verrebbe da osservare, se non fosse che Ruggeri ha vissuto metà della sua vita in giro per il mondo, soprattutto nel Regno Unito, suggendo quella capacità di sintesi, di raziocinio e di semplicità che promana solo dalla prosa anglosassone. Con la levità del vecchio signore che nella sua vita ne ha viste tante e con la destrezza dello chef che non va in cerca di ricette dagli esiti gastrici rovinosi (ho capito da taluni dettagli che, fra le altre cose, è anche un raffinato gourmet, sia pure con le radici saldamente ancorate fra i campi e l'osteria), egli riduce a pastina glutinata le questioni più complesse, mescola fatti e ricordi apparentemente slegati fra loro, insaporisce le sue analisi con dati esperienziali e aneddoti mai banali, smaschera tic umani, introduce osservazioni spiazzanti, trae conclusioni di serena definitività.
Ogni suo pezzo mi ricorda quella scena dell' "Amadeus" in cui il mio conterraneo Antonio Salieri, l'invidioso per antonomasia, scorre di nascosto uno spartito del suo rivale Mozart e ode dentro di sé «appena un palpito, con fagotti e corni di bassetto, simile allo schiudersi di un vecchio cofano, dopodiché a un tratto ecco emergere un oboe, un'unica nota sospesa lì, immobile, finché un clarinetto ne prende il posto, addolcendolo con una frase di una tale delizia... ».
Da dove gli deriverà questa inarrivabile capacità polifonica? Ruggeri sostiene di appartenere a una minoranza bastarda langarola-garfagnina, gente da pascoli alti, che ha un senso pastorale dell'amicizia e conosce a fondo le proprie pecore: le ha studiate tutta la vita. «Fin da bambino mi sono allenato alla disciplina della scarsità», mi ha spiegato. Già.
Venne al mondo in un'umida portineria che misurava appena 15 metri quadrati, a Torino, al numero 9 di piazza Vittorio Veneto. Il lavandino con l'acqua corrente ed il gabinetto erano in cortile.
All'ingresso un tavolino con sopra un vaso, dentro il quale la portinaia Maria Caterina, la nonna di Ruggeri, sistemava con amorosa simmetria i fiori appassiti scartati dal conte Prato Previde, proprietario del palazzo. Oltre il paravento, le brandine pieghevoli che venivano aperte solo per la notte. Ci dormivano Carlo, operaio alla Fiat, figlio della portinaia, e sua moglie Brunilde, che sarebbe diventata a sua volta operaia alla Fiat dopo la prematura morte del marito: i genitori di Ruggeri. Oltre il tramezzo, la camera di nonno Giovanni, operaio alla Fiat, e di nonna Maria Caterina, che ben volentieri cedettero il loro letto matrimoniale alla nuora affinché potesse partorirvi Riccardo.
Nella Torino del 1934, per un figlio di umile famiglia la fabbrica era un destino ineluttabile e lui mai, neppure per un attimo, pensò di sottrarvisi. «Gli operai della Fiat allora erano l'élite del proletariato, guadagnavano quasi il doppio di un tranviere», mi ha raccontato. «Vigeva la meritocrazia. Un addetto alla catena di montaggio poteva far carriera. Mio padre conosceva il francese perché era nato ad Apt, in Provenza, aveva studiato per conto suo l'inglese, leggeva tantissimo. A un certo punto fu promosso da operaio a impiegato. Poi, siccome rifiutò la tessera del Partito nazionale fascista, fu degradato e tornò a fare l'operaio. Caduto il regime, si vide affidare il ruolo di capufficio da un collega che lo aveva preso in simpatia, Eugenio Sulotto, un comunista diventato il dominus del Lingotto dopo la Liberazione e in seguito eletto deputato del Pci. Passato qualche mese, Sulotto pretendeva che mio padre s'iscrivesse al partito di Palmiro Togliatti. Papà si oppose e venne di nuovo retrocesso. A 40 anni fu stroncato da una cardiopatia».
E' come se la vita del padre fosse confluita nella sua. «Spirò il 24 dicembre del 1947.
Alle 9 di mattina del giorno di Natale sentimmo bussare alla porta. Pensavamo che fosse il necroforo. Invece entrò Maria Rubiolo, potentissima responsabile della comunicazione Fiat e stretta collaboratrice del presidente Vittorio Valletta. Accarezzò la salma, sostò in preghiera, poi chiese a mia madre: "Che cosa pensa di fare? ". La mamma, stordita, non seppe rispondere. Allora la Rubiolo le disse: "Se vuole, lei è assunta in Fiat. Il 7 gennaio, alle 8, si presenti all'ingegner Perosino". Alla morte di mia madre, ho trovato fra le carte il suo libretto di lavoro e sopra c'era scritto: "Assunta il 25 dicembre 1947".
Per la Rubiolo era entrata in azienda il giorno di Natale, quando le aveva offerto il posto. Questa era la Fiat di Valletta. La Rubiolo partecipò al funerale, che fu celebrato a spese dell'azienda presenti due commessi in alta uniforme, diede l'ordine di raddoppiare la liquidazione di mio padre e ne destinò una parte a me, che avevo solo 13 anni, nominando un tutore fino alla maggiore età. Il giorno in cui compii 21 anni, telefonarono dalla Fiat: "Venga a ritirare i suoi soldi, 600.000 lire". Evidentemente li avevano investiti bene e fatti fruttare».
Era il 1953 quando la Rubiolo lo fece assumere nello stabilimento di Mirafiori, «per intanto come operaio, poi si vedrà, nel frattempo studia molto», fu il viatico. Ruggeri seguì alla lettera quel consiglio, diplomandosi perito tecnico alle scuole serali.
Le premesse spiegano la carriera successiva. Ha lavorato al fianco di Gianni e Umberto Agnelli. Ha conosciuto, oltre al mitico Valletta, l'ingegner Dante Giacosa, il progettista della 500 e della 600. Ha collaborato con Carlo De Benedetti e Cesare Romiti. Ha negoziato con Muammar Gheddafi e Saddam Hussein. Ha sollecitato l'ingegner Enzo Ferrari a saldargli certe fatture per le vernici rosse dei bolidi di Maranello che erano rimaste inevase, ricevendone in cambio un vaticinio: «Lei è destinato a un brillante avvenire, in Fiat o altrove». Ha ritirato il Queen's Award dalle mani della regina Elisabetta d'Inghilterra. Ha consegnato medaglia e pergamena a suo figlio Carlo, principe di Galles, dopo una finale di polo. Ha trascorso piacevoli pomeriggi a Windsor con il principe Filippo, Lady Diana e Camilla Parker Bowles. Ha avuto l'onore d'essere uno dei cinque non americani insigniti della laurea honoris causa in legge nei 140 anni di storia della Loyola University di Chicago.
Ha fatto qualcosa di più, l'operaio Ruggeri Riccardo, fu Carlo, tornitore nell'officina 5 di Mirafiori, nominato prima impiegato, poi dirigente, quindi amministratore delegato di varie società, infine componente del comitato direttivo di Fiat holding, il sancta sanctorum presieduto dall'Avvocato dove venivano prese le decisioni strategiche del gruppo: nella sua veste di "chief executive officer" della New Holland, ha macinato utili su utili e mantenuto a galla l'intera baracca. Fu il Sergio Marchionne degli anni Novanta. Fece con i trattori quello che il manager italo-canadese ha tentato di fare con l'auto. Nel 1991 fuse insieme due rami d'azienda virtualmente falliti: da una parte Fiat trattori e Fiatallis, dall'altra Ford tractors. Un'operazione complessa quanto quella che Marchionne ha condotto su Fiat auto e Chrysler, perché ne nacque un colosso, New Holland appunto, con 33.000 dipendenti e 21 stabilimenti in quattro Continenti.
Il coronamento del piano di salvataggio fu la quotazione a Wall Street, dove New Holland venne valutata 32 volte il patrimonio netto iniziale. Ma a Ruggeri negarono la gioia di suonare la campanella nel primo giorno di contrattazioni del titolo alla Borsa di New York. A ridosso del lieto evento, da Torino arrivò nel suo ufficio di Londra un altissimo funzionario: «Da oggi lei è in pensione», gli notificò. Umberto Agnelli, che gli voleva bene ma in Fiat non riusciva più a difenderlo, glielo aveva anticipato: «Sono curioso di vedere che modo escogiteranno per estrometterti». Scelsero il più banale: i raggiunti limiti d'età, 61 anni. Un espediente da burocrati. Il collega incaricato di dargli il benservito di anni ne aveva 67. L'esodato si limitò a fargli presente che forse i gerontocrati di corso Marconi avrebbero dovuto se non altro affidare per delicatezza l'ambasciata a un "missus dominicus" meno attempato.
Chiusa l'esperienza di una vita, Ruggeri ha creato con nuora e figlio un'industria di moda d'avanguardia che ha lanciato a livello planetario un visionario stilista scoperto in California, Rick Owens, oggi celebre per la sua "maison" di Parigi.
E s'è messo a scrivere per diletto. Libri e articoli di giornale. «Ho accettato di vivere negli interstizi di questo sistema che intellettualmente disprezzo ma che mi permette una grande libertà», dice. «Per fortuna le portinerie di Torino pullulano ancora di tanti Ruggeri che studiano per avere un domani. Sono gli immigrati. Il futuro è in San Salvario, non sulla collina dove i potenti sono in progressiva evaporazione. Quelli che abitano alla Crocetta faranno la fine del conte Prato Previde».
Fra i molti pregi che riconosco a Ruggeri, uno supera in grandezza tutti gli altri: la "gravitas". Con la "pietas" e la "dignitas", era la più apprezzata delle virtù presso i Romani. Merce introvabile, di questi tempi. E' una dote da uomini veri, che ne riassume in sé molte altre: serietà, rettitudine, equanimità, doverismo. Di questa "gravitas" devono averlo provvisto il padre e la madre, altra spiegazione non saprei darmi; fors'anche, almeno un pochino, il nonno, un coriaceo comunista che gli amici chiamavano Stalin e che nel portafoglio, utilizzato solo la domenica, teneva un santino di Baffone in alta uniforme. Giovanni Ruggeri ripeteva fino alla noia al nipotino che Stalin in russo significa "acciaio" e che non a caso lui alle Ferriere Fiat era addetto all'altoforno 5, quello degli acciai speciali.
Arrivato a 28 anni, il giovanotto investì i suoi pochi risparmi in uno dei primi viaggi turistici a Mosca. Era curioso di capire se avesse ragione il nonno, che considerava l'Urss il paradiso in terra, oppure il padre, che da buon socialista definiva nazicomunismo la dittatura sovietica del proletariato. Viaggiò su uno scassato quadrimotore Ilyushin. Gli ci volle poco per scoprire che aveva ragione il padre.
Sono grato a Pierluigi Magnaschi, direttore di "Italia Oggi", d'avermi fatto conoscere Ruggeri. Lì per lì pensavo che rappresentasse soltanto lo spunto per una delle tante interviste. Ma, non appena lo ebbi davanti, mi accorsi che in lui brillava una moralità specialissima e rara. Sono ormai tre lustri che pratico ogni settimana questa ginnastica del cuore: capire in appena tre ore se la persona che mi sta narrando la sua vita è sincera oppure no. Adesso che siamo diventati amici di penna, pur senza esserci mai più rivisti, mi rendo conto che non mi ero sbagliato.
Ogni volta che lo leggo, provo lo stesso sentimento del Richard Nixon interpretato da Anthony Hopkins nel film "Gli intrighi del potere", il quale davanti al ritratto di John Fitzgerald Kennedy, appeso in un corridoio della Casa Bianca, conclude con sconsolata lucidità: «Quando gli americani guardano te, vedono ciò che vorrebbero essere. Quando guardano me, vedono ciò che sono».
Ecco, Riccardo. Spero con questa prefazione d'averti restituito almeno un po' del molto che hai regalato a noi, tuoi affezionati (e invidiosi) lettori. Non lasciarci in balia dei conti Prato Previde, mi raccomando.

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