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Giovedì 11 Ottobre 2012 - Libertà

«Contro la disuguaglianza sociale»

L'americanista Cartosio stasera in Fondazione: dagli anni '60 a Occupy



L´americanista Bruno Cartosio, in serata alla Fondazione di Piacenza e Vigevano
piacenza - All'auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano, questa sera alle 21 l'americanista Bruno Cartosio interverrà sul tema Dagli anni Sessanta a Occupy Wall Street, primo incontro del ciclo America oggi, promosso da Cittàcomune, l'associazione politico-culturale presieduta da Piergiorgio Bellocchio. Lo sguardo è rivolto anche alle ormai imminenti presidenziali del 6 novembre, ma con l'intenzione di approfondire il discorso sui movimenti sociali e politici degli Usa nell'ultimo mezzo secolo, in un tentativo di bilancio e di verifica a partire dalle pagine dell'ultimo saggio di Cartosio, I lunghi anni Sessanta, Feltrinelli, che dà conto dell'origine e degli esiti di lotte che da Oltreoceano hanno influenzato poi l'Europa, cercando di sviscerare la storia dalla mitizzazione. Appartengono alla leggenda - argomenta Cartosio - i "falò dei reggiseni" da parte delle femministe, come pure gli sputi contro i militari tornati dalla guerra del Vietnam, ma anche una certa aura che aleggia attorno al Festival di Woodstock. In ogni caso quattro anni fa, quando la corsa alle urne metteva accanto una donna (nelle primarie), un afroamericano e un veterano del Vietnam, si materializzavano davanti agli elettori i temi socio-politici e culturali dibattuti qualche decennio prima, in quei lunghi anni Sessanta, le cui coordinate si collocano - spiega Cartosio - tra la metà degli anni Cinquanta, quando iniziano le mobilitazioni afroamericane contro la segregazione razziale nel Sud degli Stati Uniti, e la metà degli anni Settanta, quando il movimento di liberazione delle donne si consolida e diventa movimento di massa: «L'arco di questi vent'anni è attraversato da diversi movimenti, a cominciare da quello afroamericano, seguito da quello bianco studentesco per arrivare alle grandi mobilitazioni contro la guerra in Vietnam e alle sollevazioni nei ghetti del Nord, per giungere alla fine degli anni Sessanta al movimento delle donne».
Quali elementi di questi movimenti antiautoritari riaffiorano in Occupy Wall Street?
«Le motivazioni dei movimenti dei lunghi anni Sessanta avevano avuto origine tutte in limiti molto marcati della democrazia nella società statunitense. La segregazione razziale era il più evidente, il più vecchio, il più grave, ma c'erano anche la discriminazione legata all'appartenenza di genere e un'ideologia militarista molto forte. L'aura antiautoritaria, che caratterizzava le proteste degli studenti, in realtà attraversava tutti quanti i movimenti. In Occupy, iniziato nel settembre 2011, questi elementi di deficit della democrazia sostanzialmente non sono più all'ordine del giorno, se non in misura marginale. C'è però una nuova focalizzazione che dà il senso all'intera mobilitazione: la disuguaglianza sociale. Anche i residui di sessismo, autoritarismo, razzismo rientrano sotto l'ombrello della disuguaglianza sociale ed economica, che è l'elemento caratterizzante della società statunitense oggi».
Il fenomeno di Occupy persiste tuttora?
«È sparito dalle cronache, perché è sostanzialmente sparito dalle piazze, per essere sospinto in parte in altri luoghi dove le proteste hanno continuato a esistere, in parte nelle forme di aggregazione che rimangono per esempio nelle scuole e nelle università, così come persistono un dialogo con il mondo sindacale e interventi contro sfratti e i pignoramenti. La gente di Occupy è poi soprattutto nella circolazione dell'informazione in internet».
Che impatto ha avuto Occupy sulla campagna elettorale per le presidenziali americane?
«Occupy è stato un movimento autonomo e in parte anche polemico, ma solo in parte, nei confronti di Obama e della sua politica. La critica era rivolta soprattutto al Congresso e ai repubblicani che hanno praticamente esercitato un'opposizione pregiudiziale e totale, assolutamente miope, dal punto di vista mio e di Occupy, rispetto al bene comune. Tuttavia, la gente sensibilizzata dalla mobilitazione e che si rivolge alla politica istituzionale appoggia Obama, pur essendo il movimento diversificato al suo interno, con una parte che si definisce più radicalmente anarchica la quale continua a indicare nella politica istituzionale, anche di Obama, i responsabili delle disuguaglianze sociali che negli Usa oggi sono effettivamente molto profonde».
Ne "I lunghi anni Sessanta" racconta anche di come è stata combattuta la guerra fredda culturale, coinvolgendo direttamente la stampa. Non c'è il rischio che la Rete, in cui vive un fenomeno come Occupy, possa attuare quelle strategie di controllo in modo ancor più subdolo?
«I rischi di disinformazione in internet ci sono sempre e comunque. Rispetto a quaranta-cinquant'anni fa è cambiata la presenza di agenzie, quali la Cia, la Fbi e altre strutture di controllo e di repressione. Manca in Rete una regia occulta in grado di esercitare una manipolazione dall'alto».
Eppure operazioni come l'abnorme schedatura descritta nel suo saggio, gestita anche all'epoca tramite computer, sono più attuali che mai.
«È importante che, mentre negli anni di Bush qualche tentativo di istituzionalizzazione di controllo diffuso c'è stato, negli anni di Obama questo tipo di progressione è stata fermata. Però non c'è dubbio che la possibilità di esercitare un controllo diffuso esista e se oggi l'Fbi, o qualsiasi altra agenzia governativa, volesse fare passi analoghi a quelli compiuti quaranta-cinquanta anni fa, li potrebbe realizzare. Il Patriot Act e la National Security Agency hanno permesso la costituzione di strutture centralizzate e ramificate. Però alcune iniziative, per esempio il controllo nelle università sui libri presi in prestito, dopo la ribellione degli atenei, si sono fermate».

Anna Anselmi

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