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Martedì 22 Maggio 2012 - Libertà

Rifici: «Oggi all'attore io chiedo più creatività»

Il giovane ma già affermato regista alla Filo per uno stage che ha visto la partecipazione di allievi da tutto il Nord Italia

piacenza - Far sì che i testi classici comunichino al pubblico contemporaneo è una delle missioni di Carmelo Rifici, pluripremiato regista, considerato l'erede di Luca Ronconi a fianco del quale ha lavorato per anni. Al Piccolo di Milano, il 38enne regista di origini siciliane ha firmato ben cinque spettacoli. Si è confrontato con successo con la regia lirica. Non perde infine il contatto con la formazione e il mondo dei giovani: ha scelto di tornare a Piacenza per condurre un seminario promosso dalla Società Filodrammatica piacentina, con il sostegno della Fondazione di Piacenza e Vigevano, che ha avuto partecipanti da Milano, Genova, Brescia, Torino, Firenze, Cremona, oltre a diversi piacentini della Filo e non.
Nella sede dalla Sala delle Muse, Rifici (che lavora con il sodalizio piacentino dal 2005) ha tenuto la sua tre giorni di seminario sul tema Rubare l'anima: il "Don Giovanni" di Molière nell'ambito della filo/factory del sodalizio, il programma didattico di perfezionamento degli attori che ospita in veste di docenti eccellenze del teatro italiano e non. Il titolo qui fa riferimento alla scena in cui Don Giovanni tenta di corrompere il mendicante promettendogli una moneta se pronuncerà una bestemmia. Ma non è la sola ragione.
«Ho scelto di lavorare sul Don Giovanni di Molière - spiega il regista -perché volevo fare un lavoro sull'interiore. Questi testi che hanno una tradizione, qualcosa di legato alla Commedia dell'Arte e alla maschera, in realtà hanno sorpassato i secoli perché sono in grado di offrire, a chi vuole scavare a fondo, riflessioni e domande. Qui ad esempio sul tema dell'ipocrisia e della menzogna. Tolto l'equivoco della maschera, ho chiesto agli attori di creare in sé un vuoto interiore, per riempirsi della profondità dei temi rivelati dalla parola del testo».
Cosa si chiede oggi ad un attore?
«Di avere un corpo molto allenato, decontratto, dalla respirazione libera. Un corpo che può essere dato in mano a qualsiasi regista. E molto predisposto alla scena contemporanea. Non ci si può più muovere sul piano della tradizione. Anche in un teatro di regia, occorre passare ad un nuovo livello di comunicazione, tra attori e pubblico, e anche tra attori e regista. Prima si adeguava l'attore alla regia. Il regista era il demiurgo, l'attore l'esecutore. Ora si pone come creatore di emozioni profonde. Una volta l'interprete doveva solo corrispondere al disegno registico. Ora invece io chiedo che l'attore contraddica anche il disegno registico, crei un rapporto dialettico. E' quello che ho tentato di fare nel Giulio Cesare di Shakespeare».
Il Giulio Cesare, con un cast di 23 attori ("in primis" Massimo de Francovich) è stata la tua quinta regìa al Piccolo ma il tuo primo Shakespeare.
«A Shakespeare ho cominciato a pensare alla mia prima regia. Volevo fare il Macbeth, ma penso che lo farò come un approdo su un percorso che ruota attorno al tema della corruzione dell'anima e della politica. Il Giulio Cesare ne è l'inizio».
La critica tradizionale è stata dura nell'accoglienza dello spettacolo. Perché?
«Io penso di aver seguito molto il testo e di non aver inventato granché. Ho scavato di più rispetto alla traccia politica che è sempre quella più seguita. Ho scelto la parte onirica. Ho proposto la vicenda in una situazione astratta. Sul rapporto presente-passato, io non vedo l'equivoco: i temi sono talmente alti e il linguaggio di Shakespeare così universale, che l'attualizzazione la fa lo spettatore».
Cesare viene presentato come un vecchio leone che sceglie di morire, consegnandosi ai pugnali dei congiurati. Anche questo è nel testo?
«Il testo sulla parte di Cesare può prendere in più direzioni: una via è quella della figura grottesca, di un Cesare fossilizzato sul potere. Ma il testo parla anche della solitudine di quest'uomo. Cesare ammette di avere presentimenti di morte e nell'incontro con i congiurati, ho rintracciato una drammaturgia interna al dialogo, leggibile tra parola e parola, che mi ha fatto pensare lui acceleri la propria morte, facendo sì che il presentimento possa avverarsi. Cesare si mostra più coraggioso della paura».
Prossimi lavori?
«Per il Festival di San Miniato, metto in scena Anima errante di Roberto Cavosi e con Maddalena Crippa come protagonista. E' un testo sul caso di Seveso, l'incidente che provocò la fuoriuscita di una nube di diossina. Alle donne si chiese di abortire. Nel testo, il conflitto di una donna che lotta tra la sua grande fede, il figlio che vorrebbe avere e il mondo che la sta obbligando a fare una scelta di cui non capisce le ragioni. Allo Stabile di Bolzano, farò invece un testo della drammaturga americana Linien Groeg sul gruppo della Rosa Bianca, i cinque ragazzi che fecero opposizione al nazismo».

Donata Meneghelli

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