Sabato 5 Maggio 2012 - Libertà
Quando il lavoro diventa dramma
Il "corto" di denuncia di Rizzi e Braghieri in anteprima. Parenti (Confindustria): crisi, puntare sul manifatturiero. Borotti (Uil): ammortizzatori più adeguati
Il ritratto di un uomo onesto ed infaticabile, che lavora nella stessa azienda per ben tre decenni con lo stesso entusiasmo del primo giorno. Ma improvvisamente viene licenziato e tutte le sue certezze svaniscono, compreso il futuro dei figli. Tenta di rientrare nel mondo del lavoro, trova un piccolo impiego che non lo soddisfa, ma in fondo sarà per poco tempo perché gli mancano solo due anni alla meritata pensione. Ed ecco la doccia gelata, l'annuncio della riforma ed il conseguente slittamento del suo riposo, in un vortice di delusione che lo trascina a vedere tutti coloro che gli stanno accanto con il viso coperto da una maschera, quasi a sottolinearne la solitudine. Questa storia, che può sembrare il racconto di uno dei tanti "esodati" degli ultimi tempi, è la trama del cortometraggio intitolato "Trent'anni di lavoro", film di denuncia sociale girato dai registi piacentini Francesca Rizzi e Claudio Braghieri. Realizzato con la collaborazione del Cineclub Piacenza "Giulio Cattivelli" e dell'associazione "Qu. Em. quintelemento" di Cremona, la prima del cortometraggio è andata in scena giovedì sera all'auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano. Presenti in sala l'ex sindaco Stefano Pareti, il vicepresidente dell'Associazione Industriali di Piacenza Nicola Parenti ed il segretario provinciale di Uil Massimiliano Borotti, che al termine della proiezione hanno dato vita ad un dibattito sul lavoro in Italia. La trama del film ha infatti offerto diversi spunti: la storia del protagonista, interpretato da Paolo Ascagni, che dopo 30 anni di lavoro nella stessa ditta viene licenziato senza tanti complimenti e non può nemmeno contare su pochi anni di sforzi per arrivare alla pensione a causa dello slittamento, è infatti di scottante attualità. «Sono fatti che portano a tragedie, documentate ogni giorno nei quotidiani - ha detto Pareti - l'ultimo è quel lavoratore di Bergamo che si è barricato in casa. E dall'inizio del 2012 sono ben 70 le donne rimaste vedove perché i loro mariti si sono suicidati a causa della perdita del lavoro.
Il governo ha affermato che questa situazione è necessaria per tamponare la crisi, ma finora si sono visti soltanto una preoccupante diminuzione del lavoro e nessuna crescita». Da qui la domanda, come si esce da un quadro generale così allarmante? Secondo Parenti, una delle strade da percorrere è quella del ritorno al manifatturiero, condita da una tenace voglia di innovazione: «Prima di tutto non condannerei troppo le aziende, ci sono anche tanti dirigenti sull'orlo del suicidio perché non possono più pagare gli stipendi ai propri dipendenti. E poi, questa situazione l'Italia la sta vivendo da anni, la crisi ha soltanto accentuato i problemi già esistenti. Bisogna puntare di nuovo sulla produzione interna, ci sono paesi come il Brasile che lo stanno già facendo e si stanno risollevando. Quindi la prima cosa da valorizzare è il settore manifatturiero, seguito da un'innovazione decisa nei prodotti. Oggi il mercato è globale, se non si propone di continuo qualcosa di nuovo si rischia il fallimento». D'accordo anche Borotti sulla visione generale della crisi, anche se la ricetta per combatterla è un po' diversa: «Vero, le difficoltà si sono accumulate negli anni e non saranno certo queste riforme a sconfiggerle. Non sono nemmeno vere riforme, solo pessimi aggiustamenti su pensioni e contratto dei lavoratori. Ma ora sono le banche che devono giocare un ruolo decisivo, concedendo crediti alle realtà più interessanti del nostro paese. Ma la crisi più grande che stiamo vivendo è quella di identità culturale. Non sappiamo più cosa vogliamo essere, dobbiamo decidere tutti insieme su cosa puntare. Ok al manifatturiero, ma devono essere più efficienti i centri per l'impiego e maggiormente soddisfacenti gli ammortizzatori sociali».
Gabriele Faravelli