Sabato 3 Marzo 2012 - Libertà
«Credo nella musica senza compromessi»
Il pianista e compositore Pieranunzi stasera a Fiorenzuola con il New American Trio per la trasferta al Piacenza Jazz Fest
di ALFREDO TENNI
«Per quanto riguarda il jazz, buona parte dell'opinione pubblica e quasi tutta la stampa soffrono di un complesso di inferiorità nei confronti degli Stati Uniti. Noi europei dobbiamo smettere di sentirci inferiori: quando ho suonato con i più grandi jazzisti d'Oltreoceano, li ho considerati colleghi, non maestri».
«Il jazz è una altissima forma d'arte ma, se vuole restare tale, deve evitare i compromessi non le forme di spettacolo più leggere e inconsistenti. Un jazzista non deve mettersi a fare il buffone per racimolare qualche spettatore in più. Un personaggio come Stefano Bollani non entrerà nella storia di questa musica».
Parole forti, nette, sferzanti. Parole che potrebbero suonare presuntuose (vedi il primo virgolettato) o ingenerose (vedi il secondo) se non fosse per un dettaglio: a pronunciarle, in questa intervista a Libertà, è uno dei pochissimi musicisti italiani a potersi permettere di farlo. Glielo permettono la bellezza dei suoi dischi, il prestigio di cui gode in tutto il mondo, il rigore con il quale si è votato alla musica come a un sacerdozio. Questo musicista è Enrico Pieranunzi, il pianista e compositore romano che da più di trent'anni è tra i più ispirati e influenti artisti jazz sulla scena planetaria e che stasera alle 21.15, al Teatro Verdi di Fiorenzuola (la biglietteria serale sarà aperta dalle 20), sarà protagonista di un imperdibile concerto con il suo New American Trio, di cui fanno parte il contrabbassista statunitense Scott Colley (titolare di una importante attività discografica e concertistica come leader) e il batterista messicano Antonio Sanchez (punto di forza delle ultime edizioni del Pat Metheny Group).
Questo appuntamento, organizzato in collaborazione con l'assessorato alla cultura del Comune di Fiorenzuola, è tra i più importanti nel cartellone di questa nona edizione del Piacenza Jazz Fest (il festival organizzato dal Piacenza Jazz Fest con il patrocinio del Ministero per i beni e le attività culturali e il sostegno della Fondazione di Piacenza e Vigevano, della Regione, della Provincia, del Comune di Piacenza e di sponsor privati), che organizza anche, per oggi pomeriggio alle 15.30, una masterclass di Antonio Sanchez (a frequenza libera e gratuita) alla "Milestone School of Music" di via Musso 5.
Maestro Pieranunzi, a Fiorenzuola lei si esibirà nella dimensione del "piano trio" che ricorre in tanti capitoli fondamentali della sua carriera, a partire dal suo leggendario trio con Marc Johnson e Joey Baron. Per lei esiste una "arte del trio" i cui principi sono immutabili? O questa arte cambia a seconda dei musicisti con cui si accompagna?
«Il jazz, musica improvvisata, rinasce a ogni nuovo incontro fra artisti diversi: è naturale che con Scott Colley e Antonio Sanchez, i due stellari musicisti con cui mi accompagno nel mio ultimo Cd, Permutation, e con cui sarò sul palco a Fiorenzuola, io finisca per parlare un linguaggio diverso da quello che parlavo con i miei partner del passato. E' vero anche, però, che, nelle mie diverse esperienze, io resto sempre fedele allo stesso ideale musicale».
E come descriverebbe questo ideale?
«Un ideale di qualità. Una qualità che non si identifica con la tecnica fine a stessa, con lo sfoggio di bravura: poche note al momento giusto, un sensibile dialogo fra i partner musicali, possono dire più di un assolo che inanella milioni di note in un secondo».
Dopo Fiorenzuola, lei sarà con questo trio al Village Vanguard di New York, dove lei, caso rarissimo per un europeo, è ormai di casa.
«Io non condivido il senso di inferiorità nei confronti dell'America che tanti jazzisti sembrano provare. Certo, gli Stati Uniti sono stati la culla del jazz, ma ormai questa musica appartiene al mondo. Il compianto pianista Michel Petrucciani diveva forse sentirsi in difetto perché non era americano? E un clarinettista come Michel Portal dovrebbe provare lo stesso sentimento? Mi pare assurdo. Oltretutto, il più influente dei pianisti jazz dell'ultimo mezzo secolo, Bill Evans, era sì statunitense, ma suonava una musica in cui le reminiscenze classiche francesi e russe erano evidenti».
Un jazzista europeo e contemporaneo può aspirare a entrare nell'Olimpo dei classici di questa musica?
«Sì, soprattutto se è anche un compositore. E se non cede mai alle tentazioni commerciali, corrive, sciocchine. Un jazzista deve suonare, non fare il pagliaccio, non dire barzellette».
Stefano Bollani, per esempio, è un jazzista che ama fare ridere il pubblico, dal vivo e alla radio. Non le piace?
«Per me non è un jazzista. Non si può confonderlo con certi grandi musicisti americani, da Louis Armstrong a Frank Sinatra, che potevano lanciare battute dal palcoscenico, ma intanto rivolzionavano la musica del loro tempo con performances strabilianti. La musica di Bollani, e di figure simili alla sua, per me è inconsistente: appartiene alla dimenticabile cronaca del cabaret, non alla storia del jazz. Il jazz è un'altra cosa».