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Mercoledì 18 Gennaio 2012 - Libertà

Vi racconto il Gigante Buono Mio padre, Giacinto

La storia di facchetti Il libro sarà presentato lunedì sera all'Auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano

Un ricordo originale, una testimonianza affettuosa e a tratti toccante di un grande uomo, di un fuoriclasse immenso per tecnica ed esempio sportivo. Questo era Giacinto Facchetti e "Se no che gente saremmo" (Longanesi) è un bel libro, un libro dedicato al capitano nerazzurro di una vita e scritto dal figlio del campione, Gianfelice Facchetti, attore e regista teatrale, penna sensibile e collaboratore del "Corriere della Sera".
Il libro sarà presentato lunedì sera alle 21 all'Auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano in via Sant'Eufemia. Si tratta di un'opera diversa dalle altre. Perché Gianfelice Facchetti non vive di solo calcio, ma anche di sentimenti belli e profondi ed emergono da un racconto che è una vita, una storia, mille storie.
Gianfelice da quando il libro è uscito, sta facendo una promozione a tappeto, perché i club nerazzurri, i tanti tifosi e gli appassionati di calcio, non hanno dimenticato il Grande Giacinto, il campione di una vita. La bandiera di una squadra. Quella a tinte nerazzurre, l'altra metà di Milano. «Io ho un album di figurine con solo Facchetti - spiega Gianfelice - arrivano da tutto il mondo e le ha raccolte Alice, la donna che amo. Lo ha intessuto in poco meno di tre anni e me lo ha donato come un testamento in immagini, che ancora cresce quando ne spunta una che "non celo". Sono state scovate un po' dappertutto, appartengono a centinaia di edizioni diverse e acquistate con l'aiuto di Internet, dipingono un ritratto dolce e complesso di mio padre che mi mancava: quello del campione e delle sue gesta, per come lo avevano conosciuto le generazioni che sono venute prima di me». Gianfelice aggiunge: «Nel libro ho inteso svelare i rapporti, forti perché sinceri, di mio padre con altri compagni campioni, come Burgnich e Boninsegna, o con un maestro come Bearzot. Ho cercato di scrivere la storia di un uomo, un campione in campo e nella vita».
Il titolo: «Nasce da uno scambio di battute tra mio padre e mia madre che ricordano il finale di "Azzurro tenebra" di Giovanni Arpino - spiega - mio padrino di battesimo e grande amico di papà dai tempi di "Germania 1974". Sembra ci fosse stato un fraintendimento in occasione della cerimonia del battesimo. Mia madre rimproverò mio padre che non esitò a difendersi dicendo che nella vita quando si dice una cosa è quella. Se no che gente saremmo».
Ma il calcio non è solo quello dei fuoriclasse, degli stadi strapieni e dei gol che valgono un Mondiale, di Sky e dei capolavori di questo o quel campione. È anche la storia di un bravo padre che gioca nel giardinetto di casa col figlio. Il ragazzino sogna di diventare un portiere, colleziona guantoni che il padre gli porta dai suoi viaggi. Quel padre era Giacinto Facchetti, e il figlio Gianfelice racconta la storia e le infinite storie di un'Inter che è anche scuola di vita: "Più che il ricordo degli stadi gremiti - dice Gianfelice - mi viene in mente mio padre che gioca con me alla Pinetina, io mi mettevo in porta, mio padre Giacinto, nonostante la sua età non fosse più quella del campione, mi piazzava dei gol imprendibili e poi mi veniva vicino e mi diceva di non abbattermi, perché quando giocava non era male, voleva consolarmi, ma questo era il metro di paragone della sua umiltà, della sua grandezza d'animo».
Il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette (De Gregori) non giocherà però con la maglia numero sette, si dedicherà al teatro, alla parola, alla scrittura e il libro che ha dedicato al padre ha una marcia in più. Mai banale, mai retorico è ricco di spunti autentici, il libro vive di luce propria: «Ho raccontato anche i conflitti tra me e mio padre, visioni lontane sulle strade da prendere come spesso accade tra padre e figlio. Facevo il cameriere e per lui sprecavo tempo che avrei potuto investire in cose più costruttive. Quando qualcosa non gli andava giù lo sapevo senza bisogno di troppe parole, per questo non mi sarei mai aspettato che venisse a trovarmi al bar. Mi spiazzò, una mattina, regalando ad entrambi l'opportunità di riconoscerci nella maniera più semplice che si potesse desiderare davanti a un cappuccino».
Prosegue: «Scrivere "Se no che gente saremmo" significa andare oltre il livello della mediocrità che ha contraddistinto i tentativi maldestri di coinvolgere mio padre nelle vicende di Calciopoli. A un certo punto o scegli di ribattere ogni giorno facendo il gioco di chi offende o volgi lo sguardo altrove: io sono andato in questa direzione, senza arretrare di un passo e con la consapevolezza che la memoria di mio padre sarà al sicuro».
Gianfelice in questo libro dà l'idea che quelli di suo padre siano stati gli anni buoni, dei Beatles e di Berkley, dell'innocenza perduta e di Mary Poppins, e che tutto ciò che di male sarebbe venuto dopo un po' avesse a che vedere con la fine della Grande Inter. Che ci sia un po' di verità? Chi scrive non è interista, ha adorato Gianni Rivera e Omar Sivori, è convinto però che a Brighton gli interisti sarebbero stati con i Mods contro i Rockers. Ma questa è un'altra storia.

Mauro Molinaroli

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