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Martedì 8 Novembre 2011 - Libertà

Reporter dei conflitti, partigiano della pace

Reporter dei conflitti, partigiano della pace. La voce di Enzo Nucci, corrispondente Rai nell'Africa sub-sahariana, è molto nota a chi segue le vicende del continente. Negli ultimi tempi il giornalista ha raccontato nei suoi servizi televisivi e radiofonici l'emergenza "fame" in Somalia, la vita nei campi profughi, la condizione di estrema vulnerabilità dei bambini. Sempre scavando dentro le notizie.
Domani Nucci, invitato dall'associazione Amici di Lengesim, sarà ospite all'auditorium della Fondazione (ore 21), presentato da direttore di "Libertà" Gaetano Rizzuto. Giovedì mattina (ore 11-13), sempre in Fondazione, incontrerà gli studenti dei licei Gioia, Respighi e Cassinari e dell'istituto Romagnosi per parlare di un mondo "altro", dove i diritti dei minori sono spesso violati. In anteprima gli abbiamo rivolto alcune domande.
Si ha la sensazione che i riflettori sull'emergenza "fame" in Corno d'Africa siano già spenti.
«La scorsa estate i mezzi di comunicazione di massa internazionali hanno segnalato l'emergenza siccità a cui ha fatto da corollario l'emergenza carestia. L'informazione ha fatto da volàno ma oggi è distratta da altro. Sì, i riflettori si sono spenti ma va detto anche che si è giustamente, per certi aspetti, privilegiato il lato emozionale della questione senza andare all'origine del problema. Insomma siamo pronti a versare la lacrima, che si trasforma in denaro sonante, ma non siamo in grado o non vogliamo capire che se c'è la crisi alimentare in Africa dipende dalla siccità, ovvero dai cambiamenti climatici che in Africa sono più visibili che altrove. Quindi va ripensata una nuova politica ambientale e ovviamente una redistribuzione più equa delle risorse. Vanno poi fatte alcune considerazioni che possono sembrare "politicamente scorrette" ma meno male che sono state sollevate proprio da una rivista come "Nigrizia", organo dei missionari comboniani, che non può essere certo tacciata di indifferenza verso l'Africa. Innanzitutto va posta l'attenzione sull'uso di immagini choc di bambini morenti, con il beneplacito delle agenzie umanitarie internazionali, senza rispondere ad alcune domande di base. Che sta facendo, e cosa ha fatto prima, la cooperazione internazionale? Perché ci si mobilita solo di fronte alle immagini strazianti? Linda Polman, giornalista olandese, autrice di "L'industria della solidarietà" (Bruno Mondadori editore), denuncia una "sacrilega alleanza" tra giornalisti e agenzie di aiuto: un'alleanza che impedisce la stesura di rapporti imparziali per alimentare il "carrozzone della crisi" e dell'offerta di un'immagine falsata dell'Africa. In Somalia a morire di fame sono gli sfollati di limitate zone colpite dalla siccità perché quest'anno, ironia della sorte, ci sono stati buoni raccolti in gran parte del paese. Va anche detto che una consistente parte degli aiuti inviati in queste zone serve a coprire i costi amministrativi e logistici delle agenzie umanitarie e a pagare i pedaggi alle milizie, ai signori della guerra che in Somalia possono arrivare all'80 per cento. La Polman ha inoltre individuato mille organizzazioni umanitarie nazionali e internazionali attive sul fronte carestia. Solo in Kenya, snodo fondamentale nel Corno d'Africa, ci sono 6 mila organizzazioni non governative in grado di "pompare" un miliardo di dollari nell'economia keniana, con il risultato - denuncia la giornalista - che ogni parlamentare ha creato una propria struttura per gestire gli aiuti anche perché l'anno prossimo ci saranno le elezioni e il denaro è necessario. Non solo ma autorevoli membri del governo del Kenya, che nel nord vive con drammaticità siccità e carestia, hanno venduto ai paesi confinanti le riserve di grano, intascandone i proventi. Su questo non c'è la necessaria informazione».
Nel frattempo sembrano crescere le tensioni in Kenya, con i rapimenti di occidentali per mano dei gruppi islamici Shabaab.
«Tirano bruttissimi venti di guerra. Dietro l'intervento militare del Kenya, ci sono Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna che stanno sostenendo militarmente il governo di Nairobi. Gli Usa con i droni (aerei senza piloti) che si alzano in volo da basi segrete in Etiopia per colpire Shabaab o presunti tali - ricordiamo 25 vittime civili di un raid statunitense -, i francesi che con le navi da guerra stanno bombardando Kisimaio, nella Somalia del sud e gli inglesi che con alcune navi da guerra stazionano di fronte alla ex colonia italiana. E' una situazione già vista in passato: ogni volta che entra in azione un soggetto estraneo alle dinamiche somale, ne esce con le ossa rotte. E' successo con gli americani e con gli etiopi».
Qual è la situazione degli sfollati somali nei campi profughi?
«Sta peggiorando perché con l'intervento keniano in territorio somalo sono state sigillate le frontiere. Fino ad agosto arrivavano mille profughi al giorno, ora sono pochissimi quelli che riescono a sfuggire ai controlli e quindi il traffico si è fermato. Ad aggravare la situazione, c'è la ripresa del controllo di alcuni quartieri di Mogadiscio da parte degli integralisti islamici che ad agosto avevano annunciato una ritirata strategica. Mentre a Dadaab, il campo profughi in territorio keniano, gli aiuti sono rallentati dopo il rapimento di due donne spagnole, un medico e una logista, di Medici Senza Frontiere. E tutto il personale straniero delle varie organizzazioni che lavorano nel campo è stato ritirato per motivi di sicurezza».
Abbiamo italiani di Procida nelle mani dei pirati somali, una sofferenza finita nel silenzio. La pirateria è ancora aggressiva?
«La pirateria è un grande affare con colletti bianchi che operano in comodi uffici a Londra, che investono in borsa e sono impegnati a ripulire i soldi dei riscatti in attività legali, in primis l'edilizia, nel confinante Kenya. Per gli ingenti capitali che si muovono intorno a questa attività, i pirati riescono ad avere il consenso delle povere popolazioni che entrano nell'affare fornendo mano d'opera a basso costo, i pirati propriamente detti, facendo parte dell' "indotto" ovvero animando l'industria per la gestione degli ostaggi, preparazione pasti, guardiani, gestione di piccoli porti in grado di accogliere le navi sotto sequestro. Ad oggi ci sono 277 marinai, di cui 11 italiani, prigionieri e 15 navi, nonostante lo spiegamento di navi militari di moltissimi paesi è impossibile controllare un'area tanto vasta. Anche qui è necessario adottare una politica comune tra i vari stati nella lotta alla pirateria».
Ha molto colpito il tuo reportage sui bambini soldato, fedeli esecutori di ordini, facilmente influenzabili. Li hai incontrati in Ciad. Quale storia ti ha toccato di più?
«Quella di tre fratellini di 13,12 e 11 anni costretti dalla famiglia ad imbracciare le armi per tradizione tribale e perché il padre aveva dovuto cedere il suo negozio. Solo con un fucile in mano sono riusciti a "restituire l'onore perduto alla famiglia" e a sfamare la madre che non aveva mezzi di sostentamento. Il fratellino più grande è un genio del computer, totalmente autodidatta, è riuscito a farsi dare un portatile dai suoi superiori e senza alcuna conoscenza precedente si è immerso nella macchina. Sogna di studiare informatica, è uno dei migliori "smanettoni" in Ciad».
Nell'Africa sub-sahariana si sono sentiti i venti della primavera araba?
«Poco perché l'Africa sub sahariana è molto più complessa. Religione e politica si innestano in maniera diversa nella società e poi nei paesi cristiani si assiste da anni alla crescita incredibile di sette e chiese dalle idee molto confuse ma che incontrano un crescente successo popolare».
A Nairobi, nel luglio scorso, hai preso parte al concerto per i missionari Kizito e Lipeti, quale segno ha lasciato?
«Tutto ciò che serve a illuminare la realtà africana è un atto di coraggio e va sostenuto per allargarne la conoscenza. Quindi sono benvenute tutte le iniziative tese all'incontro tra mondi, all'apertura di nuovi ponti. Il concerto del maestro Riccardo Muti è stato un punto di partenza e ne va sottolineata l'audacia perché dirigere 500 perone nel più grande parco di Nairobi presentando un programma di musica che non appartiene alla tradizione del posto non è cosa da poco».
A Piacenza incontrerai i ragazzi delle scuole superiori, tu hai iniziato a fare il giornalista a 16 anni su giornali studenteschi. Consigli del mestiere?
«Lo stesso di Steve Jobs: "Siate affamati, siate folli". Consigli nessuno: si procede per selezione naturale. Scherzo. Oggi è sempre più difficile questo mestiere. Si è perso il piacere di interpretare "Il fattore umano" come avrebbe detto lo scrittore e giornalista Graham Greene. Se una volta la "prova del fuoco" per un aspirante giornalista, era quella di portare ad ogni costo in redazione la fotografia del morto, in un regolamento di conti o in un incidente, o notizie sui ricoveri in ospedale, grazie a un poliziotto da farsi amico, oggi l'aspirante giornalista sa 10 lingue straniere e conosce i segreti del computer. Ma il "fattore umano", il rapporto con gli altri, il piacere di creare intese e fonti di notizie è qualcosa che non esiste più. Allora riscopriamo il fattore umano».

Patrizia Soffientini

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