Domenica 27 Marzo 2011 - Libertà
L'azione del clero piacentino per l'unità d'Italia
di DOMENICO PONZINI
Il Papa Benedetto XVI, nel suo messaggio al Presidente della repubblica Italiana, in occasione delle celebrazioni del 150° anniversario dell'unità d'Italia, rilevava come: "Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse, il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale. Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l'apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di "Questione Romana", suscitando di conseguenza l'aspettativa di una formale "Conciliazione", nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale".
La riflessione sull'atteggiamento del clero piacentino nel 1848 e 1861 non ha perciò alcuno scopo apologetico, ma unicamente quello di evidenziare come la comunità ecclesiale piacentina, che, al di là della politica, sentiva fortemente l'influsso del pensiero dei propri pastori, abbia vissuto quei giorni di passione e di lotta.
Il clero negli anni dell'unità
Risentiva fortemente dell'ambiente sociale e della sua formazione culturale. Dal 7 marzo 1816 era al governo di Parma e Piacenza Maria Luisa dì Austria che, secondo il nostro storico Francesco Giarelli, ebbe carattere "consistente e residente". Nonostante i fermenti del periodo post napoleonico, era generalmente amata dal popolo, per la sua mitezza, non firmò mai alcuna condanna a morte, si interessò del sistema viario dello stato, costruendo vari ponti, amò le arti e gli artisti, fu longanime ed attenta al progresso. Se come donna non lasciava simpatie, per la sue debolezze, come sovrana si era guadagnata la riconoscenza dei poveri. Naturalmente per quanto riguarda l'aspetto religioso, cercò di frenarlo da tendenze innovative, preferì alla guida della Diocesi piacentina l'ottantaquattrenne Carlo Scribani Rossi a Ludovico Loschi, che in passato aveva azzardato qualche idea di riforma sinodale, anche se poi lo promosse all'infula episcopale, frutto del suo mutamento di intenti, inviò infine Mons. Luigi Sanvitale, già vescovo di Fidenza, già suo cappellano, che resse la diocesi dal 1836 al 1848.
La formazione del clero era affidata al Seminario Urbano, che sotto lo stretto controllo vescovile prepava sacerdoti legati alla tradizione e diffidenti di fronte alle novità. Vi erano poi il Collegio Alberoni e, dal 1846, il Seminario Vescovile di Bedonia, sotto la direzioni dei Missionari Vincenziani piemontesi, aperti alle esigenze pastorali e culturali che il periodo postrivoluzionario francese e napoleonico andavano presentando.
Gli ecclesiastici che avevano ricevuto una cultura legata al piccolo mondo provinciale ed ignaro dei grandi fermenti europei, formati in Seminario, o nel Collegio dei Gesuiti di S. Pietro o del Collegio Alberoni, erano i più numerosi, quelli invece più sensibili alle aspirazioni italiane ed europee erano circa un centinaio, detti appunto i centumviri, tutti, salvo qualche rara eccezione, ex alunni del Collegio Alberoni, tutti forniti di grande cultura, il cui capo carismatico era ritenuto D. Giovanni Battista Moruzzi, nativo di Cereseto di Compiano in val Ceno (+ a Piacenza nel 1869), professore in materie scientifiche, rettore del Seminario Urbano, insigne educatore animato da profondo spirito cristiano e filantropico. Tutti, senza alcuna eccezione, ebbero a soffrire a causa delle loro tendenze liberali, fra l'altro moderate e ben distinte dal movimento liberale anticlericale, che finì per accreditare a sé stesso, tutte le conquiste in campo politico e sociale.
Preti autenticicittadini esemplari
Pur nell'impossibilità di ricordarli tutti con riconoscenza, è doveroso fare menzione di alcuni che godettero grande stima, per la loro distinta cultura, ma anche per la loro profonda religiosità e la loro attenzione verso i piccoli ed i bisognosi. Fra essi fu antesignano D. Giuseppe Taverna (1744-1850), che, il 16 maggio 1848, sei giorni dopo la dichiarazione plebiscitaria di Piacenza della sua adesione al Regno piemontese, il ministro Vincenzo Gioberti, dopo aver visitato il Collegio Alberoni, volle incontrare nella sua umile e povera dimora, baciandolo ed abbracciandolo. Il grande piacentino era infatti assai noto in Italia, tanto che, ben a ragione fu definito: "primo lume dei pedagogisti moderni, che illustrò la patria (Piacenza) e la scienza, onde ha redenzione il popolo che faceva e manterrà la libertà d'Italia". Grande parte ebbe anche D. Antonio Emaueli, di Sanbuceto di Compiano, in val Taro, (1810-1892), alunno alberoniano, professore di filosofia, nel Seminario urbano, arciprete di Fiorenzuola a 32 anni e prevosto di S. Francesco dal 1847, che fece parte del Governo Provvisorio, Pare che sia questo il motivo per cui il 10 maggio 1848, proprio nella Basilica del Santo, che in seguito divenne dichiarato Patrono d'Italia, al termine del plebiscito con 37.089 voti, su 37.588 votanti, Piacenza, la Primogenita d'Italia, dichiarò la sua annessione allo Stato Piemontese.
La soddisfazione del sacerdote però non durò a lungo, tanto che, amareggiato perché il suo patriottismo liberale fosse considerato un apporto all'anticlericalismo, che rivendicava il monopolio del movimento risorgimentale, nel 1868, si ritirò a vita privata nel suo palazzo avito a Sanbuceto, ove chiuse i suoi gironi il 9 gennaio 1892.
Altro membro autorevole del clero risorgimentale fu D. Raffaele Sforza Fogliani, (Piacenza 1815 - 19 dicembre 1868). Alunno del Collegio Alberoni, sacerdote nel 1837, canonico della Cattedrale ed insegnate di Diritto Canonico nella facoltà del legge a Piacenza, cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro, si distinse per le sue convinzioni liberali, non disgiunte da grandi meriti filantropici con promozione di opere di beneficenza. Molti altri meriterebbero un'adeguata menzione, non vanno però dimenticati D. Antonio Civetta (1813-1882) e D. Piero Foresti (1788-1862), ambedue alunni alberoniani; parroco di S. Giovanni in città e poi a Ziano il primo, professore di religione, dotto filosofo e teologo, parroco di S. Brigida il secondo. A loro si deve aggiungere D. Carlo Uttini (1822-1902) insigne pedagogista.
Mons. Antonio Silva, perla del clero risorgimentale
Superiore a tutti per spiccata eccezionale intelligenza e determinante opera di sensibilizzazione e formazione del clero, di fronte ai problemi dei tempi, fu Mons. Antonio Silva, nato a Bedonia nel 1795, morto a Piacenza il 28 giugno 1881. Alunno alberoniano, divenuto sacerdote fu subito nominato professore del Seminario Urbano. Le sue distinte doti vennero subito valorizzate dai suoi vescovi: fu segretario particolare di Mons. Carlo Scribani Rossi e del suo successore Ludovico Loschi. Voluto come vicario generale dal vescovo di Guastalla Pietro Zanardi, si distinse nella medesima incombenza soprattutto a Piacenza al tempo del vescovo Mons. Luigi Sanvitale.
La sua influenza sulle decisioni episcopali fu indubbiamente benefica per la Diocesi. Bedoniese, ebbe grande parte nella fondazione del Seminario di Bedonia e nell'incoraggiare il fondatore D. Giovanni Agazzi a chiamarvi per l'insegnamento i missionari piemontesi di S. Vincenzo De Paoli, già da un secolo presenti nel Collegio Alberoni.
Al Silva, membro del Consesso Civico di Piacenza. si devono le aperture del Sanvitale, vescovo, conte filoducale, verso il nuovo corso della storia. A lui si deve ascrivere anche la benedizione che il Vescovo, il 20 marzo 1844, impartiva alla bandiera tricolore, portata solennemente in corteo preceduto dalla banda cittadina la sera precedente, nella piazza del Duomo. Un popolano intrepido, un certo Giovanni Zanini, salito sulla guglia del Duomo, depose il tricolore fra le braccia dell'Angelo dorato, fra il tripudio del popolo.
La lungimiranza di Mons. Silva, purtroppo non compresa, apparve nel discorso storico che, a nome del Vescovo, vecchio e malato, tenne il 24 maggio 1848, ai vicari foranei della diocesi, in cui presentò la possibilità di conciliazione tra i regimi liberali e la Chiesa, proponendo la costituzione di un'associazione di preti e di laici che fosse in grado di approfondire i rapporti fra la religione e la patria.
Purtroppo gli eventi successivi non deposero in favore dei nobili intenti patriottici del grande Vicario.
Pochi mesi dopo moriva il vescovo Sanvitale. I Canonici della Cattedrale, la cui maggioranza non condivideva le aspirazioni liberali dei centumviri, nominò Vicario Capitolare, con un solo voto di scarto sul Silva, il canonico monsignor Francesco Nasalli, pio, dotto, caritatevole, ma meno compromesso politicamente. Naturalmente per la scelta del successore, il duca Carlo II di Borbone presentò una terna al papa, in cui non poteva essere certamente compreso il nome del Silva, nome sul quale puntava invece Carlo Alberto. L'eletto fu Mons. Antonio Ranza, che scelse come vicario Generale Mons. Angelo Testa. Mons. Silva pertanto si ritirò a vita privata, restando canonico Vicedomo della Cattedrale e dedicandosi ai suoi studi preferiti, mentre la dirigenza della diocesi si ripiegava su un atteggiamento anti piemontese, soprattutto a causa dell'insorgenza della questione romana. Uomo di grande cultura e di esimie virtù, l'ex Vicario visse ritirato per sua scelta, ignorato totalmente dalla curia. Dopo il lungo periodo di oblio, che durò dal 1845 al 1876 il nuovo grande vescovo, B. Giovanni Battista Scalabrini, convinto patriota conciliatorista, lo riportò alla giusta considerazione del clero e dell'opinione pubblica, che peraltro lo ritennero sempre in grande stima sia per la sua cultura, sia per i suoi meriti filantropici, permettendogli così un sereno tramonto, avvenuto il 28 giugno 1881.
La sua nobile personalità, purtroppo mai studiata in modo approfondito resta tuttavia, nella storia della Diocesi di Piacenza, come l'icona di quella parte del clero che, in ogni tempo, visse con amore e senso di responsabilità le vicende della società piacentina, impegnandosi con vivo senso del dovere, non venendo meno alle proprie responsabilità, pagando di persona e soffrendo con dignità a causa delle propria convinzioni.
Così operarono le menti migliori che realizzarono l'unità d'Italia. Il tricolore, che è ritornato a sventolare accanto a l'Angil del Dom, vuole essere un doveroso omaggio al cittadino e sacerdote Antonio Silva, ed a quanti, come lui, hanno sognato una Patria unita. libera e felice.