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Mercoledì 16 Marzo 2011 - Libertà

«Improvvisare? Sì, ma la melodia è tutto»

Parla il chitarrista Frisell sabato in concerto al Fillmore con Disfarmer Project per il Jazz Fest

piacenza - «Ho passato la mia adolescenza nel Colorado degli anni Sessanta, dove la musica country era dappertutto: alla radio, nei bar, nelle feste, nell'aria. Non ero affatto interessato a quella musica: ascoltavo Bob Dylan, Frank Zappa, Jimi Hendrix e gli altri grandi artisti rock dell'epoca, in attesa di diventare più grandicello e scoprire il jazz. Ma negli ultimi vent'anni mi è successa una cosa strana: mi sono scoperto perdutamente innamorato del country e della musica popolare americana in generale. Si vede che tutto il country che ho assorbito da ragazzo in Colorado era diventato parte di me senza che io me ne accorgessi».
Parola di Bill Frisell, il fenomenale chitarrista americano che sabato alle 21.15 si esibirà al Fillmore di Cortemaggiore in uno dei concerti più attesi del Piacenza Jazz Fest, organizzato dal Piacenza Jazz Club con il patrocinio del Ministero per i beni culturali e il sostegno di Regione, Comune, Fondazione di Piacenza e Vigevano e Fondazione Libertà. Frisell, che domani compirà 60 anni (auguri!), ha passato gli ultimi 35 a volare, come un'industriosa ape musicale, da un fiore all'altro: il jazz "colto" dell'etichetta tedesca Ecm, collaborazioni con il cantautorato più aristocratico, la rumorosa avant-garde del "teppista" John Zorn, e chi più ne ha più ne metta. Pochissimi jazzisti - anzi, forse nessuno - hanno avuto un approccio alla propria musica così felicemente eretico, così imprevedibile, così attratto dall'"altro da sé".
Una ricetta che, complice un uso visionario degli effetti della chitarra elettrica, ha trasformato lo stile di Frisell in un "jazz psichedelico" più unico che raro.
Eppure questo accanito sperimentatore è innamorato delle canzoni, delle melodie semplici: «La melodia è tutto, anche nell'improvvisazione», mi dice, convinto. E il feeling profondissimo che Bill Frisell intrattiene con le melodie semplici e perfette dell'anima folk e country che ha scoperto in età matura si sentirà di certo nel concerto che terrà a Cortemaggiore con Greg Leisz al mandolino e alle pedal steel guitars (strumento country quant'altri mai), Carrie Rodriguez al violino e Viktor Krauss basso. Bill Frisell's Disfarmer Project è il nome di questo quartetto, che proporrà le musiche di uno dei dischi più belli e "strani" del Nostro: Disfarmer, del 2009. Un disco le cui musiche commentano gli straordinari ritratti che il grande fotografo americano Mike Disfarmer fece negli anni Trenta ai poverissimi contadini di Heber Spring, in Arkansas: una "Spoon River" per immagini di un'America rurale messa in ginocchio dalla Grande Depressione, l'America di Furore e di Woody Guthrie.
Da qui prende le mosse la nostra chiacchierata con Bill Frisell.
L'album «Disfarmer» è un caso unico nella sua discografia, che pure è eccezionalmente variegata. Non fosse altro, per il fatto che è stato un disco "su commissione".
«Sì: mi è stato commissionato dai curatori delle collezioni fotografiche di Mike Disfarmer nei musei di New York. Ma poche cose, nella mia vita, mi hanno regalato altrettanta ispirazione: per fare questo disco ho attraversato mezza America in auto, sono andato a Heber Springs nei luoghi in cui Disfarmer era stato. E ho toccato con mano l'ambiente che aveva ispirato le sue fotografie. Fotografie che sono i ritratti dell'anima più profonda del mio Paese, un'anima che ha grandezze e abissi spaventosi. Nel disco rendo omaggio anche a due classici della musica popolare americana, Lovesick Blues, un disperato country di Hank Williams, e That's all right mama, il blues di Arthur "Big Boy" Crudup che fu inciso da Elvis nel suo primo disco e diventò così il primo brano rock'n'roll».
In un altro disco, «Have a little faith», lei inanella una collezione di "musica americana" che va da compositori classici come Charles Ives e Aaron Copland alle canzoni di Bob Dylan e John Hiatt. Qual è, per lei, il filo rosso che lega musiche così diverse?
«Non riesco a dividere la musica in categorie, per me sono tutti rami dello stesso albero. Fanno parte della mia esperienza».
Lei ha iniziato come clarinettista e ha continuato a suonare clarinetto e sax fino a 20 anni, quando era già un chitarrista affermato. Il suo apprendistato sugli strumenti ad ancia ha influito sul suo modo di suonare la chitarra?
«Sì, mi ha insegnato molte cose. Quando impari a suonare con uno strumento in cui devi soffiare, finisce che, qualunque strumento tu suoni, cerchi di dare a ogni nota la stessa intensità che le daresti se dovessi crearla col tuo fiato. Cerchi di dare alla tua musica la naturalezza del canto: la melodia è importantissima, non mi piacciono i jazzisti che eseguono svogliatamente il tema e poi si lanciano in assoli primi di melodia per far vedere quanto sono bravi. Io sono fatto al contrario: se suono una canzone di un grande cantante come Sam Cooke, Aretha Franklin o Ella Fizgerald, cerco di sentire la voce del cantante nella mia testa mentre suono».
Pochi jazzisti parlano di "canzoni" quanto lei. Quali sono le sue preferite?
«Oddio. Come si fa? Ce ne sarebbero tante... ».
Me ne dica tre, d'istinto.
«I'm so lonesome I could cry di Hank Williams. E poi, My funny Valentine di Rodgers & Hart. E Mr. Tambourine Man di Bob Dylan».
Da anni ogni suo disco razzola in un campo musicale diverso: l'ultimo, «Lagrimas mexicanas» con Vinocius Cantuaria, è un tuffo nell'America Latina. E il prossimo come sarà?
«Uscirà in aprile e si intitolerà Signs of life: ci saranno solo composizioni mie. E anche stavolta cambierò formula: sarò accompagnato da un trio d'archi, violino, viola e violoncello».

Alfredo Tenni

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