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Giovedì 7 Aprile 2011 - Libertà

Il dramma dell'amore assente

"I pugni in tasca" al Municipale con Ambra e Bellocchio jr, luci e ombre

di MAURO MOLINAROLI
Gli applausi sono lunghi e sinceri al termine dello spettacolo. Piacenza accoglie la pièce teatrale I pugni in tasca con la regia di Stefania De Santis e le interpretazioni di Piergiorgio Bellocchio e Ambra Angiolini con affetto. Perché il legame che tutti noi abbiamo con il film culto di Marco Bellocchio è più che mai vivo, autentico e ancora oggi quel lungometraggio girato nel 1965 muove emozioni, fotografa nevrosi, rabbia e anticipa un'epoca: il Sessantotto.
Ciò detto, la rappresentazione teatrale andata in scena l'altra sera al Municipale nell'ambito della sezione Altri Percorsi della stagione di prosa Tre per Te, con la direzione artistica di Diego Maj, organizzata da Teatro Gioco Vita con Fondazione Teatri e Comune, è quasi altra cosa. Soprattutto nelle atmosfere e nei passaggi fondamentali che hanno reso e rendono il film oggetto di studio ancora oggi.
La follia di Ale e il ruolo di Giulia (Ambra Angiolini e Pier Giorgio Bellocchio; gli altri interpreti sono Giovanni Calcagno, Aglaia Mora, Fabrizio Rongione, Giulia Weber, scenografie di Daniele Spisa, costumi di Giorgio Armani e musiche di Ennio Morricone), i due fratelli perno di quella vicenda cupa e disperata, ritratto di una famiglia che non sa relazionarsi con il mondo, spietata immagine di una società in crisi profonda, nella riproposizione teatrale non riescono ad interpretare fino in fondo quella ribellione al perbenismo piccolo borghese così virulenta nel film.
Il dramma della sopravvivenza in una famiglia in cui l'amore è praticamente assente, un deserto di affetti senza nessuna prospettiva per il futuro, una situazione di immobilità assoluta che fa pensare a un carcere o a un manicomio senza speranza di guarigione, emergono sì ma spesso un po' forzatamente. E il tutto sembra mischiarsi tra passato e presente, tra violenza e frustrazione senza però incidere profondamente, senza scosse emozionali. Ciò a dire quanto sia delicato trasporre un film in teatro.
Viene fuori, è vero, il dramma che nasce dentro le mura familiari, coi protagonisti legati da torbidi intrecci di sentimenti, tutti in qualche modo incapaci di relazionarsi con ciò che li circonda. Ed emerge anche il tentativo di mettere a nudo i disagi legati alla famiglia anche ai giorni nostri. A parte le musiche che ricalcano brani del passato tra melodramma e canzone francese, la pièce oscilla tra il nostro ieri e un oggi molto inquieto e uno solo dei cinque protagonisti, Augusto, sembra in grado di tessere relazioni con l'esterno. Esce, ha una fidanzata, un lavoro, ama la normalità, recita il ruolo di capofamiglia provando a ricondurre tutti a una realtà ordinata e ordinaria, con i fratelli che interpretano la parte dei figli più piccoli, con i loro dispetti, le gelosie, i giochi incestuosi.
Alcune scene che nel film fecero epoca come l'uccisione da parte di Ale della madre e del fratello malato Leone, gli esercizi ginnici - sempre di Ale - accanto alla bara della madre morta, qui vengono riproposti senza il tormento e la sfrontatezza che aveva Lou Castel nel suo progetto di morte e senza la bravura di Paola Pitagora, donna annoiata, innamorata dell'idea dell'amore, che vive e recita i sentimenti che brillano per un istante e si dissolvono come le sue illusioni. Il tutto è ammantato da un tragico epilogo ma di ciò che ha realizzato Marco Bellocchio tra Bobbio e Piacenza, in uno stato di grazia che lascia ancora oggi senza fiato, resta ben poco.
La claustrofilia dei protagonisti viene fuori solo parzialmente, le scene ruotano attorno agli episodi chiave dell'opera. Piergiorgio Bellocchio si muove con una fisicità notevole, Ambra prova a fondersi con Giulia, ma (e forse è inevitabile) alcuni tra i momenti più provocatori e più significativi del film, qui vengono solo sfiorati. Stefania De Santis con la sua regia ripropone ma non inventa e gli attori - nonostante i loro sforzi - faticano a trovare una dimensione. Certe scene che nel film restano incastonate nella mente e che hanno un ruolo importante (ad esempio la festa in taverna, l'andare a mignotte in riva al Po), vengono citati appena e la tensione che sprigionava il film in tutti i suoi passaggi si affievolisce. E allora, nonostante gli sforzi della regista e degli attori, tutti lodevoli nel loro impegno, I pugni in tasca sembrano inavvicinabili. Del resto non è facile conforntarsi con un film-simbolo, un capolavoro che solo un genio allo stato puro ha potuto concepire in quegli anni, quando vivere era anche un po' morire e viceversa.

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