Domenica 12 Settembre 2004 - Libertà
Nabucco "fuoco e fiamme"
Municipale - Un'edizione nel segno della "macchina teatrale" quella di Panizza. Con Oren, il Coro e Maestri un Verdi d'energia
Il nostro Municipale, già Comunitativo, compie 200 anni: fausto evento irripetibile. Che ne sarà per il tricentenario? Chi vivrà vedrà. Atteniamoci all'oggi, cui conferisce insperata solennità la presenza del Presidente Carlo Azeglio Ciampi, dopo che Piacenza fu onorata da Sandro Pertini, da Oscar Luigi Scalfaro, da Francesco Cossiga. Solo che allora si festeggiò, al Municipale, con concerti di varia levatura, mentre con Ciampi si torna all'opera, al suo mito, alla sua sacralità. Giusta la data, 10 settembre 1804 - 10 settembre 2004; mentre pare opinabile la scelta di Nabucco, cioè della prima grande affermazione verdiana, nonché della prima opera di Verdi rappresentata al Municipale, primavera 1843, a un anno appena dalla prima alla Scala. Ma si pensi che avvenimento sensazionale per acume, originalità e felice anomalia avrebbe costituito la reviviscenza di quello Zamori ossia L'eroe dell'Indie, libretto di Luigi Prividali, partitura di Johann Simon Mayr, che allora inaugurò il nostro Comunitativo-Municipale. La propose a suo tempo il musicologo piacentino Mario Giuseppe Genesi, ma la sua voce rimase inascoltata. Purtroppo, a schiacciante confronto, incombe l'esempio della ventura stagione della Scala rinnovata, che si aprirà con quell'Europa riconosciuta di Antonio Salieri che 226 anni fa, sotto Maria Teresa d'Austria, battezzò musicalmente il teatro progettato da Giuseppe Piermarini. E' ben vero che è improponibile, per plurime ragioni facilmente intuibili, l'accostamento del Municipale alla Scala, come quello di Mayr e Salieri (uno vale l'altro) a Verdi; ma è pur vero che l'opzione Nabucco resta invariabilmente un ripiego. Un ripiego tuttavia gradito e benedetto dai più, pronti ad arricciare il naso nel caso appena ventilato di una erudita riproposta di Zamori. In Nabucco non importano più di tanto i salti di tono, la grana grossa dell'ineguale partitura, l'ideazione scabra e talora sommaria, e certa fin brutale alIure bandistica. Al corrusco e balenante affresco di sostanziale impianto oratoriale conferiscono l'acuto senso di grandezza, di solennità e di forza, la penetrante percezione del passo drammatico, l'irresistibile impulso ritmico. Soprattutto, all'epica eloquenza della spigolosa creazione dei risorgimentali "anni di galera" riesce decisiva la dinamica preponderanza del coro, il suo elettrizzante protagonismo, con un culmine nell'eloquente sortita degli ebrei esuli in Babilonia, "Va, pensiero, sull'ali dorate", che fedelmente parafrasa il Salmo CXXXVI, "Super flumina Babylonis", e si configura come autentica "aria" corale d'immediato impatto comunicativo, già candidata notoriamente - senza esito positivo - a inno nazionale d'Italia. L'eccezionale circostanza esigeva uno sforzo produttivo di superiore levatura. La Fondazione Toscanini ha cercato di corrispondere alle insolite esigenze convocando alcuni nomi di prestigio, benché le sostituzioni dell'ultima e penultima ora inducano a sospettare interferenze o intoppi nel congegno organizzativo. Spettacolo nello spettacolo, la direzione di Daniel Oren si attiene ai canoni consueti a questo singolare, atipico musicista. Come sempre, Oren vibra, freme, canta, saltella, spasima, si agita, si contorce, incalza sino a livelli infuocati, esplosivi, immedesimandosi a livello di trance, di rapimento estatico nelle ragioni della musica e comunque infondendo carica, suscitando emozione ed entusiasmo nel pubblico e nell'orchestra, la Toscanini, che ne esce rivitalizzata. Vedere per credere. Parimenti il Coro del Municipale, straordinariamente rimpolpato e guidato con amorosa cura dall'esperto Corrado Casati, assume in pieno il rilievo protagonistico che gli compete, con esiti che infiammano l'uditorio fino al supremo "Va, pensiero", reso con intensità e bissato a furor di popolo. Ambrogio Maestri delinea un Nabucco cospicuo grazie ai suoi notoriamente ragguardevoli mezzi vocali, gradevolmente, opportunamente sposati a intenti belcantistici. Forse vi si coglie qualche lieve segno di stanchezza. Attento a non disperdere cotanto tesoro. Soprattutto interprete di robusto spessore, Andrea Gruber affronta e doma con acrobatico scatto felino (anche fisicamente inteso) e vocalità agrodolce la temibilissima Abigaille, per quanto si dubiti che questo ruolo di soprano drammatico d'agilità le si addica ancora pienamente. Quale Zaccaria, Paata Burchuladze compensa il logorio della voce con accento, vigore e imponenza indiscutibili. Soave e compunta come si conviene Nino Surguladze, Fenena, cui Verdi assegna una posizione un poco periferica, ma non secondaria, come pure ad Ismaele, nel caso specifico al discreto Nazareno Antinori. All'intorno, i puntuali Carlo Striuli, Enzo Peroni e Paola Cigna (cognome alquanto impegnativo!). Giusto, legittimo che la regia di Paolo Panizza voglia trascendere l'interpretazione tradizionale, "intesa come archeologia". Giusti, legittimi il ricorso a mirabolanti macchine teatrali (cioè al sei-settecentesco "teatro di macchine"?) e l'impulso motorio, quasi moto perpetuo, impresso per azione e reazione in coro e masse varie, figuranti, comparse ecc. Giusta, legittima la cura, l'attenzione ai minimi dettagli, entro la sobria, severa, immutabile scatola scenica. Ma in più di un punto si pensa che una maggiore sobrietà ovvero un minore sovraccarico di esibita orpellatura non guasterebbe. La spoglia essenzialità del primo Verdi lo esigerebbe.
Francesco Bussi