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Domenica 27 Febbraio 2011 - Libertà

«L'Italia nata dalla cultura»

Daverio: l'unità non è stato un prodotto politico

piacenza - «L'Italia è un prodotto culturale, non politico», perché in un Paese diviso era «ascoltando il Nabucco o le grandi ouverture della Trilogia popolare di Verdi che si sentivano tutti italiani, a Napoli come a Venezia e a Milano». Lo stesso avveniva leggendo le pagine dei Promessi sposi, scritte in un lombardo intriso di reminiscenze toscane. O davanti ai quadri dei "macchiaioli" riuniti a Firenze nel Caffè Michelangelo, per poi raccontare, magari a posteriori come succederà a Giovanni Fattori, l'epos dell'unità. «Ancora una volta furono le arti a fare le rivoluzioni e non il contrario» ha ribadito Philippe Daverio, che ieri all'auditorium di via Sant'Eufemia ha suggellato, davanti a un foltissimo pubblico, il ciclo di incontri organizzato dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano per i 150 anni dell'Unità d'Italia e durante il quale, ha ricordato in apertura il critico Eugenio Gazzola, sono state affrontate diverse tematiche: il contesto socio-culturale, le questioni storiografiche ancora in discussione, la partecipazione femminile, i rapporti tra Stato e Chiesa e, ieri, il contributo dell'arte e della cultura, con riferimento anche alla collezione della Galleria d'arte moderna "Ricci Oddi" che ieri ha visitato. Un museo che invita - ha suggerito Daverio - a porci una domanda: "Che messaggio ci racconta oggi la "Ricci Oddi"? È difficile da decifrare, perché si tratta forse di una dato ormai caduto nelle nebbie della memoria, che ogni tanto qualcuno afferra», ha proseguito lo storico dell'arte, alludendo ironicamente anche al clima delle imminenti celebrazioni del 17 marzo, che Daverio ha prospettato come «l'incontro di una serie di smemorati, che cercano invano di farsi venire in mente le cose, a tal punto che la decisione di festeggiare il 150° anniversario dell'unità nazionale si è risolta nella costruzione di un ponte, inteso come fine settimana», quando invece nel 1911, ricorrenza del 50°, un ponte, quello della Vittoria a Roma, era stato costruito davvero.
«All'epoca ci fu un impegno folgorante, straordinario. Oggi abbiamo perso il controllo delle nostre radici e della nostra genesi storica. Dovremmo avere il coraggio di ammettere onestamente che l'operazione unitaria è stata fallimentare. Ho lanciato una proposta provocatoria: affidare Pompei ai caschi blu dell'Onu, perché noi non riusciamo a preservarla. Dobbiamo chiederci: "Perché l'infinito patrimonio artistico italiano è così disgregato? Perché Venezia è ridotta a un cadavere? Perché Firenze perde mille abitanti l'anno? Perché Napoli, in passato così vivace, è arretrata rispetto al Cairo? "».
Per Daverio una grande responsabilità storica in questo scenario va addossata al Piemonte: «Il più povero e meno articolato degli Stati italiani si sentì in obbligo di assumere un'eredità preziosissima. Una piccola burocrazia si trovò tra le mani un patrimonio che superava la sua capacità d'intervento. Venezia e Firenze furono così sottoposte a una comunità montana, subalpina, nel cui capoluogo Torino, emblematicamente, non si era mai tenuta una "prima" verdiana. Dopo il 1861, il Paese dei sordi conquistò il Paese dei musicanti. Ne paghiamo lo scotto ancora oggi». A determinare il corso unitario fu comunque «un fatto inatteso, in fondo tollerato e inizialmente considerato perdente, la spedizione dei Mille. Giovani tra i 18 e i 24 anni che promossero una sorta di movimento studentesco ante litteram. Il loro ceto era anche umile, ma soprattutto borghese. I Mille furono forgiati dagli eventi. Si trattò dell'unico momento in cui l'Italia cercò di sostituire alla vecchia aristocrazia nobiliare un'élite borghese e laica in un Paese di bigotti. Oggi occorre avere il coraggio di analizzare quel passato, uscendo dalla retorica».

Anna Anselmi

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