Domenica 21 Novembre 2010 - Libertà
Eneide e Bucoliche: Virgilio poeta dell'emigrazione
piacenza - Fu Pascoli a definirlo per la prima volta "poeta dell'emigrazione": ed in effetti tale definizione calza a pennello a chi cantò dell'"emigrato" per eccellenza, quell'Enea che dalla patria Ilio andò nel Lazio. Ma "poeta dell'emigrazione" Virgilio lo è anche in altre opere: nelle Bucoliche ad esempio si rintraccia una visione della realtà che è esproprio, ingiustizia, guerra e dolore; all'opposto il mondo pastorale, nella sua immutata serenità, offre al poeta un approdo sicuro ma instabile tanto che, alla fine, anche l'Arcadia viene travolta da "un cieco destino". Ben la rappresentano Titiro e Melibeo, i due pastori-poeti protagonisti della prima Bucolica che il padre scalabriniano professor Stelio Fongaro e l'avvocato Salvatore Dattilo hanno ripreso nell'aula magna della Casa madre dei padri scalabriniani, nel corso del primo appuntamento con le Letture virgiliane organizzate in collaborazione con la Fondazione di Piacenza e Vigevano.
Sullo sfondo della guerra civile, nella quieta campagna mantovana i veterani di Ottaviano ed Antonio confiscano i poderi ai piccoli proprietari, che sono quindi costretti ad emigrare: uno di loro è proprio Melibeo che, spingendosi in avanti con il suo gregge renitente, incontra l'amico Titiro e si stupisce di vederlo imperturbabile nel suo sereno ozio di sempre; Titiro, sotto al quale si celerebbe lo stesso Virgilio, è stato graziato dalla confisca dal nuovo dio di Roma come il poeta lo fu da Ottaviano (anche se poi, nell'egloga IX, è lo stesso Virgilio, stavolta sotto le spoglie del pastore Menalca, ad essere rudemente cacciato dalle sue terre).
Al centro della prima Bucolica è dunque il tema dell'esilio, rappresentato attraverso le sue cause e i suoi drammi: «Le prime sono di ordine politico e richiamano un mondo di violenza, di discordia fatale e di ingiustizia» ha spiegato il professor Fongaro, «i secondi sono quelli propri dello sradicamento dalla propria terra, dalla famiglia, dal lavoro, dalle abitudini di vita». Non a caso Virgilio fa pronunciare a Melibeo già nei primi versi «noi lasciamo i confini, lasciamo le dolci campagne, / noi fuggiamo la patria» in opposizione all'immagine di Titiro che medita «un canto silvestre sulla sampogna leggera»: è il tema del "lasciare", dell'abbandono cantato anche nel XVII canto del Paradiso dantesco, nel coro del terzo atto dell'Adelchi manzoniano e persino nel Cantar de mio Cyd. Il dolore della partenza si scioglie dunque in un rimpianto accorato della terra che è nota, dei "fiumi che bene conosci" tra i quali Titiro resterà, in opposizione all'amico chiamato a andare fra "insoliti prati", "alcuni agli Afri assetati, / altri alla Scizia ed altri al rapido Oasse di Creta, / ed ai Britanni divisi interamente dal mondo": l'emigrazione risulta dunque un assurdo di natura, un capovolgimento dei poli del mondo a cui si può rispondere con un senso di solidarietà fraterna, quella di Titiro nei confronti dell'amico, che tuttavia non lenisce il dramma della lacerazione e dell'abbandono.
Betty Paraboschi