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Giovedì 10 Giugno 2010 - Libertà

Loi: «Piacenza? E' la città di tanti artisti, amici miei»

Il poeta ottantenne stasera ospite in Fondazione. «Mi sono accorto che il dialetto in cui scrivo lo porto nel cuore»

Che bella emozione Franco Loi. Gli parli e pensi che le sue parole abbiano il sapore della prima gioventù, quando il talento è una specie di follia e la vita un viaggio in incognito con se stessi. Perché la sua sensibilità è grande come grande è la sua scrittura. La poesia in lui è un moto dell'anima che percepisci tra frasi e le righe di un tempo che sa d'eterno. Lo scrittore, ottantenne, sarà ospite questa sera alle 21 all'Auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano in un incontro dal titolo Franco Loi e Piacenza: una lunga amicizia. Interverranno anche Stefano Pareti e Maurizio Meschia, anch'egli poeta e scrittore.
Loi, cosa la lega a Piacenza?
«Ho tanti amici nella vostra città, ho conosciuto il poeta Ferdinando Cogni, il grande Alberto Cavallari quando era direttore del "Corriere della Sera", i pittori Bruno Cassinari di cui ammirai una stupenda mostra a Palazzo Farnese nel 1983 e Lodovico Mosconi. Piacenza ha una sua peculiarità, città cerniera, fortezza Bastiani e terra di confine, mi ha regalato giornate meravigliose dal Po agli Appennini. Sono stato tante volte dalle vostre parti e apprezzo quei luoghi apparentemente uguali ma tanto diversi dalle tante località che lambiscono il Grande Fiume. E non da ultimi i miei amici piacentini sono Gian Franco Centenari, Vittorio Baio, Stefano Pareti che ho apprezzato come assessore alla cultura e come sindaco e la mia amica Chicca che incontrerò stasera».
Veniamo a lei, perché scrive poesie in dialetto?
«E' andata così: scrivevo racconti, scrivevo tutte cose che non avevano niente a che vedere con la poesia. Studiavo la filosofia, la scienza, la religione e poi nel 1965, all'età di 35 anni mi capitò tra le mani un volume del Belli che mi colpì moltissimo. Pensai che era straordinario che il poeta milanese potesse dire tante cose con pochi versi e in poche parole. Io in quei tempi stavo scrivendo un romanzo e mi accorsi che attraverso la poesia con poche frasi puoi narrare molte cose. Prima del 1965 scrivevo in italiano perché pensavo che fosse la mia lingua e invece nel mio romanzo c'erano un impiccato, un giovane operaio e i fucilati che avevo visto durante la guerra. Roba da macelleria umana buttata sui marciapiedi. Volevo anche parlare di un giovane soldato che andava a bussare alla porta di un casino. Ho detto a me stesso che questi personaggi erano popolani giovani, non potevo farli parlare in italiano o parlare di loro in italiano e così mi misi a scrivere in milanese. Scrivendo in milanese capii immediatamente che quella lingua l'avevo nel cuore, nell'anima, faceva parte di me, non pensavo di conoscerla così bene. E ho scoperto la poesia perché quando scrivevo non seguivo più la testa ma mi lasciavo dire, mi lasciavo andare come fa Dante quando scrive I'mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch'e' ditta dentro vo significando. Allo stesso modo io andavo riempiendo di significati le parole. Significati di cultura e di lingua, anzi dirò di più, la poesia è stata per me una sequenza di suoni e di ritmi che mi davano significati. Che poi la lingua dialettale sia concreta e sia fatta di cose molto più dell'italiano è confermato dal fatto che tutta la narrativa italiana mette un dialetto all'interno della lingua: Verga il siciliano, Svevo il triestino, Tozzi il suo toscano popolare, Pavese il piemontese».
Il dialetto come arricchimento della lingua?
«Immettere la lingua parlata, la lingua orale accanto all'italiano porta al linguaggio il calore, la forza del proprio rapporto con le cose. E ricordo benissimo. Scrissi 19 poesie nel settembre del 1965. Per alcuni anni non mi cimentai con il dialetto, ma quando morì mio padre, colto da ictus, scrissi Strolegh in venti giorni. La mia dimensione culturale mi ha fatto capire quanto importante sia stato quel filone linguistico, la rielaborazione del dialetto lombardo e dell'hinterland milanese, che assiste al disagio sociale della classe operaia e dell'ambiente rurale».
Una via di mezzo, la sua, tra la saggezza popolare e la fedeltà alle tradizioni, agli stereotipi di una visione di vita che sa ancora dare saggezza, morale, attaccamento ai valori della vita.
«San Francesco e Santa Teresa dicono la stessa cosa: nessuno fa poesia, io come tanti altri poeti, sono quello che sono. La poesia non ha tempo. Abbiamo dovuto sorbirci l'enfasi neoclassica de "l'ira funesta del pelide Achille", quando invece Omero scrive attraverso i dialetti ionici. Lo stesso fanno Dante, Petrarca e Leopardi e i pochi grandi poeti che abbiamo conosciuto. La vera poesia è sempre sacra scrittura soprattutto quando rompe gli schemi.
Le canzoni sono poesia?
«Qualche canzone ha dentro anche la poesia. Quando mi sono trovato con Francesco Guccini a leggere poesie davanti a un pubblico, un ragazzo si alzò e chiese a Guccini se si sentiva un poeta. Francesco disse di non esserlo perché alle parole il cantautore deve aggiungere la musica. Il poeta è colui che fa sentire la musica attraverso la parola. Senza musica non c'è canzone che stia in piedi. Giorgio Gaber e Fabrizio De André sono gli unici ad avere scritto poesie di profondo valore».

MAURO MOLINAROLI

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