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Mercoledì 19 Maggio 2010 - Libertà

Domani in Fondazione verrà ricordato Stefano Fugazza, direttore della Galleria Ricci Oddi

Domani in Fondazione verrà ricordato Stefano Fugazza, direttore della Galleria Ricci Oddi. Sulla sua figura pubblichiamo una testimonianza inedita del grande pittore Giancarlo Braghieri, successivamente scomparso, che risale al 16 settembre 2009.

di GIANCARLO BRAGHIERI
Un amico è sparito come un alito di vento, sparito, improvvisamente. Quale sarà il suo compendio dopo la morte, se un dio di marmo non gli ha permesso di raccogliere i frutti dell'albero della vita e la fragilissima gioia? Forse avrà ricompense ultraterrene.
Conobbi Stefano tanti anni fa a Casa Ghezzi (Vicobarone). Lo invitai su a Vico per una buona abbuffata di tortelli piacentini fatti da Stella con tutte le erbe selvatiche che crescono spontaneamente in campagna. Venne a trovarmi con sua moglie Rosella: una donna minuta, schiva, gentile, dal naso leggermente camuso, capelli lunghi e nerissimi; al chiarore del giorno l'intenso nero diventava luminosissimo.
Quando scese dalla macchina, abbracciava un'enorme pianta verde con foglie di grandi dimensioni. Lui teneva in mano un quadretto piccolo con inserita una lamina d'oro figurata, che alla Stella piacque tanto che l'appese sopra il letto, dove si trova tuttora.
Stefano Fugazza nacque a Cantone di Agazzano nel 1955. Piccolo borgo di quattro case in croce, al limite della grande polveriera che al tempo dell'ultima guerra era adibita a magazzino o deposito di munizioni, bombe, esplosivi (lì io ci rimisi la mano sinistra).
Ho sempre pensato che Stefano provenisse da una famiglia abbastanza agiata; in realtà i suoi genitori erano di modesta estrazione ma grazie al loro spirito di sacrificio egli poté dedicarsi agli studi: dalla sua adolescenza alla maturità visse protetto da un ambiente culturalmente di radici tradizionali e questi stati d'animo rinvigorirono le sue riflessioni interiori per poi sfociare in nobili ed elevati sentimenti. Uomo di cultura, fin da giovane si appassionò di arte figurativa e di letteratura; dopo la laurea fu pregiato autore di presentazioni e monografie e saggi, come ad esempio "Simbolismo", Mondadori, 1991, e "I pompiers. ll volto accademico del Romanticismo", Ilisso, 1992.
Ultimamente aveva redatto da circa due anni o forse più, in collaborazione con Gabriele Dadati, un Pamphlet: viaggi letterari, curiosità pittoriche, poesie e fotografie. La stampa nazionale poneva entrambi come promotori delle nuove generazioni di scrittori. "Ore piccole" è una rivista unitaria e insieme veritiera, è pura; a me spiace però che in merito alle nostre personalità giovanili piacentine nessuna di loro venga mai citata, appunto per il carattere non locale e particolaristico della rivista.
Comunque "Ore piccole" è un messaggio poetico, estremamente compendiato dalla forza innovativa del suo linguaggio.
Stefano era un personaggio che quando argomentava d'arte con qualcuno possedeva l'abilità del gesto più generoso del mondo: tra tesi e antitesi, parevano sintesi scaturite da chi usa la logica della persuasione forzata, anche se il ragionamento di Stefano era quello risolutivo: insomma, per delicatezza lasciava all'altro il piacere della trovata. Perché? Per cercare la verità negli altri, capire il meccanismo della loro personalità.
Dalle tante presentazioni scritte o dette a voce su di me, con naturale semplicità comunicativa, ma acute, ho sempre provato enormi emozioni; mi aprivano universi onirici, stimolazioni che mi eccitavano, mi provocavano, mi spronavano, mi spingevano alla creazione, come se Stefano fosse stato l'elemento che mi teneva in vita. Da lui avevo capito benissimo che da una metafora non ci sono i presupposti essenziali per creare pittura, perché se la pratichi, senti che qualcosa ti si spezza dentro: è un viaggio nell'anima, è coraggio, è autodisciplina, è passione, è fuoco, è combinazione di cose che "avvengono", che "accadono", è l'emozione infinita di un pensiero in movimento che ti apre i sensi e tutto il resto, anche la disperazione, se non ti accorgi di seguire la strada di Eraclito che già 2500 anni fa aveva annunciato: "Per quanto cammini e percorri una strada, non potrai raggiungere i confini dell'anima, tanto profondo è il suo logos".
Quando le penombre della malinconia mi avvolgevano, celandomi la conoscenza del mondo esterno, e nel dipinto nascevano i dubbi, allora chiedevo aiuto a lui, a Stefano: "Che dici di questo lavoro? "
Stefano era il "sensibile", l'archetipo di una cultura ambivalente, fantastica, per cui le idee nella sua mente a me sembravano dei deliri onirici. Sembrava che la pittura gli viaggiasse misteriosamente dentro lo spirito: anzi, anticipava l'avvento del nuovo e lo fissava con la sua magica intuizione dentro il vero sorridendo. Per dirla con Baudelaire, sentiva che "Il bello non è che la premessa della felicità".
Se un uomo, un nome, qui a Piacenza, poteva essere associato alla storia della cultura artistica, era Stefano Fugazza, che più di ogni altro ha ridato vigore anche alla storia dell'arte piacentina. Autore prolifico, piacevole da leggere come dimostrano i suoi libri, le presentazioni e pure nelle dissertazioni vocali come un apostolo aedo. Leggere i suoi appunti critici per me era una piacevole euforia, un vantaggio, non rischiavo mai di annoiarmi né di leggere un testo piatto e insulso, perché la sua penna era sempre intinta di un potere rabdomantico.
Argomentando d'arte cercava la bellezza e la trovava sempre nel disincanto della propria passione, passione dello spessore e qualità del suo intenso e meraviglioso sentire, passione librata con un leggero soffio di memoria metafisica, passione solidificata nei labirinti della memoria (se Dedalo inventò il Labirinto per poi volare via, fu uno stratagemma per studiarne il percorso poi con la memoria?) e le visioni di un fantastico surrealismo o di un'arte dal fascino strutturale per dare un volto rivelatore all'arte della forma. Stefano fuggiva i formalismi estetici: la semplicità, la peculiarità del suo intimo esprimevano un linguaggio raro e proprio che nei nostri ricordi rivelava assoluti valori umani. A volte mi chiedevo come potevo accostarmi, anche con miseranda presunzione, alla sua figura anche di storico, all'arte dello scrivere, all'intellettuale impegnato.
Egli "possedeva" la Ricci Oddi, grazie a quello spazio di soggettività in cui era libero di amministrare da uomo giusto al posto giusto; era un alchimista sperimentatore, per nostra fortuna. In quei vasti spazi della galleria coltivava aiuole dove seminava i suoi profumati gigli. Era risorta, questa Galleria, che meglio sarebbe chiamare Santuario dell'arte: mostre, conferenze, dibattiti, valutazioni sui linguaggi figurativi in un'atmosfera di leggenda, che con un pizzico di follia Stefano aveva reso una sorta di "ascesa alle sfere celesti". Rappresentava il piacere della ricerca, una specie di ubriacatura anche freudiana: musa, governante, complice, baccante, amorosa, protettiva, misteriosa, puttana, dolce e forse anche sopportata con dolorosa sofferenza.
Comunque per Stefano la Galleria, nelle sue molteplici attività amministrative e artistiche che in lui confluivano, fu sempre un impegno serissimo, desiderando egli fortemente di inserirla nel grande giro del turismo culturale europeo: un impegno per il quale profuse tutte le sue energie fino allo spasimo. Amava la Ricci Oddi molto più di quanto l'amassimo noi. Era un uomo di inesauribile intelligenza, che con corde invisibili guidava all'infinito i percorsi dell'anima, e la sua anima, masticata dalla sensitività, ci ha mostrato come la metafisica si getta sovente a capofitto nella storia, e solo attraverso la sua passione, i suio scritti, i suoi dibattiti, abbiamo potuto percepire la verità.

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