Mercoledì 19 Maggio 2010 - Libertà
Stefano Fugazza L'amore per i libri
Oggi all'Auditorium della Fondazione Piacenza ricorda Stefano Fugazza a un anno della sua scomparsa con una giornata di studio. Pubblichiamo il ricordo di Gabriele Dadati sui quattro intensi anni della loro collaborazione nella rivista "Ore Piccole" che ebbe tanto successo
di GABRIELE DADATI
Una delle cose che ha caratterizzato la personalità di Stefano Fugazza, e che si è rivelata il primo terreno comune di interesse che ci ha legati a partire dalla primavera del 2000, quando ci siamo conosciuti, era l'amore per i libri.
Quando dico libri intendo proprio i libri come oggetti. C'era naturalmente in lui una grande passione per la letteratura, che conosceva in modo esaustivo e che di continuo saccheggiava da lettore onnivoro quale era, sia diurno sia notturno, ma oltre a questo - e non è scontato - Stefano amava quei parallelepipedi fatti di carta, cartone, inchiostro e colla che chiamiamo appunto libri, conosceva le collane storiche dell'editoria italiana, frequentava le tipografie, scorreva i cataloghi delle librerie antiquarie, di continuo comprava pubblicazioni nei negozi o sulle bancarelle.
Di più: conosceva le parti di cui si compongono i libri, riteneva fondamentale che ci fosse il foglio di guardia a proteggere il frontespizio, aveva una sua idea di come dovesse essere ordinato un colophon, rimaneva perplesso quando trovava i numeri sulle pagine bianche - che non ci devono essere - o quando le coste dei libri erano mute, senza indicazione. Ancora di più: Stefano era uno che i libri amava farli. Ci sono più di mille voci nella sua personale bibliografia e molte di queste sono interventi in volumi a proprio nome o collettivi, più ancora che su giornali e riviste.
Ecco: tutte le volte che si passava dalla fase di scrittura di un testo alla fase di realizzazione editoriale per lui era un momento di estremo interesse, in cui tornava a riguardare le bozze, in cui dava consigli a editori e tipografi, in cui se poteva si preoccupava della carta o di come il libro sarebbe stato rilegato.
Era istruttivo vederlo lavorare, soprattutto quando lo faceva con i tipografi, più che con i grandi o medi o piccoli editori, perché lì era libero di far fruttare la sua cospicua cultura editoriale. Farla fruttare, come può immaginare chi lo ha conosciuto, con il massimo dell'umiltà e della modestia, senza mai volersi imporre, ma solo portando il contributo di chi vuole che un lavoro venga bene e ha a disposizione gli strumenti per farlo venire bene.
Io sono, a mia volta, un maniaco dell'editoria.
Ho sempre preferito il Salone del libro di Torino al Festival della letteratura di Mantova, perché il farsi dell'oggetto-libro mi interessa molto più della semplice redazione di un testo, che pure può avere un grande valore letterario. Ho cominciato a fare libri che avevo quindici anni, adesso ne sono passati tredici e risultò coinvolto in almeno un centinaio di volumi: a volte scrivendoli per intero, a volte scrivendoli in parte, a volte curandoli, a volte correggendoli, a volte discutendo su come impaginarli e così via. E un certo numero di questi libri mi hanno visto lavorare insieme a Stefano. Cosa c'era di bello in questo? C'era che con lui si imparava facendo le cose proprio insieme, in un rapporto che è sempre stato orizzontale e mai, neppure all'inizio, verticale. La differenza d'età, di autorevolezza, di cultura e di tutto quanto avrebbe autorizzato un classico rapporto maestro-allievo. Ma questo non era concepibile per una persona che alla pedagogia del "fai così" preferiva quella del "ti mostro come si fa". So di avere una mia cultura editoriale, so di averla maturata in questi anni sia studiando le fattezze di qualche migliaio di libri sia con l'averne fatti ormai tanti, ma so allo stesso tempo che decisivo è stato fare libri con Stefano, che mentre insegnava era pronto anche ad apprendere.
Abbiamo impiantato un laboratorio continuativo di editoria con l'esperienza della nostra rivista, il trimestrale "Ore piccole", incentrato sulla letteratura e l'arte italiane del Novecento. I mesi di preparazione sono stati quelli della seconda metà del 2005, dove abbiamo sia inventato la struttura della pubblicazione sia reperito i fondi per pubblicarla, principalmente grazie al sostegno della Fondazione di Piacenza e Vigevano, dell'Associazione Industriali e di altri soggetti, e poi tra l'inizio del 2006 e la fine del 2009, per quattro anni, l'abbiamo data regolarmente alle stampe, per un totale di 14 numeri, ognuno composto da 128 pagine piuttosto fitte.
Di fatto, "Ore piccole" è una rivista-libro (o forse proprio un libro, un libro periodico, come l'ha chiamata più di una volta Rossana Bossaglia) in cui cercavamo di far convergere l'esperienza di giovani e veterani, di persone dentro l'accademia e appartenenti al cosiddetto underground, in modo che, come c'era un continuo dialogo tra di noi, ci fosse allo stesso modo un continuo dialogo sulle pagine stampate. Qualche traguardo lo abbiamo tagliato: abbiamo pubblicato l'ultima grande intervista a Luigi Meneghello prima che morisse, abbiamo dedicato un numero ad Aron Demetz che è finito citato nella bibliografia dei cataloghi dell'ultima Biennale di Venezia, abbiamo dato spazio ad alcuni saggi di Federico Francucci, ricercatore dell'Università di Pavia, che costituiscono altrettanti capitoli del suo ultimo libro sulla letteratura italiana del Novecento, abbiamo raccolto poesie di Massimiliano Palmese, poi finalista al Premio Strega, abbiamo stampato testi dispersi di Lalla Romano e così via.
Inoltre abbiamo visto recensita positivamente la nostra rivista su "Repubblica", su "il Giornale", su "Il Giornale dell'Arte" e su tanti altri periodici, ne ha parlato Philippe Daverio su Rai 3, a "Passepartout", e Marino Sinibaldi più volte su Radio 3, durante diverse puntate di "Fahrenheit". Ancora: siamo stati a presentarla più o meno in tutta Italia, dall'Accademia di Brera a Milano alla nuova Accademia di Catania, dall'Aula magna dell'Università di Genova a quella dell'Università di Pavia, dal Campidoglio a una piccola sala messa a disposizione dall'amministrazione di Portoferraio, sull'Isola d'Elba.
Abbiamo preso stand al Salone del libro di Torino, a "Più libri, più liberi" a Roma, a "Parole nel tempo" a Belgioioso, un anno addirittura ad Artefiera a Bologna. Elenco tutto questo con l'orgoglio e la nostalgia per quattro anni intensi e belli nel fare la rivista, di cui tre vissuti insieme e l'ultimo purtroppo da solo, sia durante i mesi della malattia sia dopo. Confesso che mi piace poter esibire questa specie di medagliere che se riguardasse solo me mi farebbe sentire più che altro stupido e tronfio, ma invece riguarda due persone che avevano alcuni progetti comuni e quindi non è fuori luogo la soddisfazione per quel che s'è fatto.
"Ore piccole" aveva questo nome perché era quello che facevamo rubando ore al sonno, al termine di giornate già abbastanza piene: spesso ci mettevamo ai tavolini di qualche bar (ricordo bene la sera in cui abbiamo buttato giù il primo indice, eravamo alla Muntà di Ratt) e stavamo lì con fogli e appunti, bevendo qualcosa e intanto lavorando.
Si può immaginare bene con quale faccia interrogativa ci guardassero dai tavoli circostanti. Però il nome "Ore piccole" aveva anche altre valenze: le "Ore piccole", che sono le ore appunto della notte, sono quelle a cui viene relegata la cultura, che non fa audience e quindi non fa gola agli inserzionisti abbastanza da guadagnare la prima serata, e sono anche le ore in cui passano i vecchi film, che spesso sono gli unici che valga la pena guardare. Allo stesso modo le "Ore piccole" sono quelle delle immagini sensuali, dell'erotismo.
Volevamo insomma suggerire l'idea che la cultura è qualcosa di seducente, che ci intriga e che ci riguarda. Chissà se e quanto ci siamo riusciti. Da ultimo, come sapete, esiste l'espressione "fare le ore piccole", che vuol dire appunto stare svegli la notte, e ci è sempre sembrato importante quel verbo, "fare", che indica una volontarietà, una volontà, una scelta. Noi volevamo fare le ore piccole e volevamo che con noi facessero le ore piccole i lettori della rivista, dedicando alla pubblicazione quei momenti speciali della giornata quando ormai il chiasso del mondo s'è acquietato e si può smettere di guardare fuori e dedicarsi a guardare dentro.
Abbiamo fatto in tempo a mettere in piedi anche una collanina di libri illustrati. Si chiama "Parole piccole" e ha previsto tre uscite: il racconto La voce d'un libro di Edmondo De Amicis, illustrato da splendide chine originali di Leonardo Cemak, uscito nel 1906 sull'"Illustrazione Italiana", la rivista della buona borghesia di inizio secolo, e da noi ripubblicato a cento anni di distanza (l'autore non fece in tempo a vederlo in volume, perché morì nel 1907); Conoscere la provincia di Cesare Angelini, accompagnato dalla riproduzione delle acquaforti di Teodoro Cotugno, che raccoglie le riflessioni di questo sacerdote pavese, già rettore del collegio Borromeo, studioso manzoniano, che dichiarava di avere due padroni da servire, Dio e la letteratura; e infine un divertente racconto intitolato Il Natale dalle mutande di latta dello scrittore toscano Enzo Fileno Carabba, illustrato dalla giovane piacentina Liza Schiavi, di cui in questo periodo si sta preparando una nuova e diversa edizione a cura di Liza Schiavi stessa. Questi volumetti stavano nel doppio solco di parola e immagine, che era quello che fin dall'inizio ci affascinava.
Avremmo voluto fare altri libri: una collanina di interviste accompagnate da belle fotografie da intitolare "Ragioni piccole" e poi una collana di grande formato con contributi vari, da intitolare "Extra omnes". Non c'è stato il tempo. Oggi quello che abbiamo sono 14 numeri di "Ore piccole", di cui due usciti durante la malattia di Stefano e due dopo la sua scomparsa e a lui dedicati, e 3 numeri della collana "Parole piccole".
E anche se c'è questo aggettivo che circola così tanto, l'aggettivo "piccolo", mi pare che non abbiamo fatto poi poco, perché come ha scritto Ferdinando Cogni in un suo epigramma: "La piccola città, / si cresce meno in fretta ma si cresce".