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Mercoledì 31 Marzo 2010 - Libertà

Al Farnese i tappeti anatolici Ushak

Provengono dalla collezione di Achille Armani e Alberto Binecchio

Fino al 30 giugno nel salone quadrato dei Musei Civici fanno compagnia al Sivas di manifattura turco-indiana, donato nel 1999 a Palazzo Farnese dai collezionisti Achille Armani e Alberto Binecchio, una serie di Ushak, un Savonnerie dalle intense sfumature rosa, i Berber dai colori dei tramonti nel deserto e la delicata vivacità dei rami benauguranti di melograno simbolo di fertilità di un tappeto acquistato a Kathmandu, nel Nepal. Armani e Binecchio hanno scelto tra i pezzi prediletti della loro raccolta, datati tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento - «tappeti di cui non ci siamo mai voluti separare, nonostante le richieste di vari acquirenti», precisano - per suggerire un percorso introduttivo a un arte incontrata quasi per caso oltre quarant'anni fa, complice un compagno di università persiano. Una passione che da allora non hanno più abbandonato.
«È straordinario quanta sapienza artigianale e abilità artistica, quanta cultura sia racchiusa in un manufatto solo in apparenza semplice come il tappeto» osserva Armani. «Non si finisce mai di imparare. Per esempio, il Sivas in lana e seta che abbiamo voluto restasse nella nostra città, qui a Palazzo Farnese, è un enigma da approfondire, nel suo associare insieme caratteristiche turche e indiane. Vi compaiono inoltre stemmi a kilim che non non sono ancora stati identificati e che potrebbero aggiungere interessanti elementi alla sua storia». Cuore dell'esposizione sono i cinque Ushak, di provenienza anatolica, una tipologia particolarmente amata dai pittori del Rinascimento, che l'hanno ripresa nei loro quadri, a volte con fedeltà ai dettagli talmente minuziosa da fornire oggi agli esperti informazioni importanti per ricostruire l'evoluzione dell'arte dell'annodatura. Gli Ushak esposti al Farnese sono però cronologicamente molto più vicini a noi: «Risalgono al XIX secolo. Quelli precedenti - spiega Armani - erano più elaborati, ma sono personalmente rimasto conquistato da questi esemplari monocolore, così raffinati nella loro essenzialità».
Il collezionista piacentino invita, al di là del disegno decorativo e del tipo di annodatura, a contemplare proprio le valenze cromatiche uniche dei tappeti, frutto di una perizia nell'uso di tinture naturali irraggiungibile nella produzione industriale. A questi aspetti accenna, in pagine di forte suggestione, lo scrittore iraniano Kader Abdolah, esule in Olanda, nei romanzi "Scrittura cuneiforme" e "La casa della moschea", editi da Iperborea. Nel primo racconta un commovente rapporto padre-figlio nella Persia al bivio tra tradizione e modernità. Contrasto che si riverbera anche nella produzione tipica dei tappeti. Il padre di Ismail, già rispettato riparatore di tappeti in un villaggio, sperimenta quindi la delusione di andare a lavorare ai telai meccanici di una fabbrica di Teheran, in un ambiente così diverso dalla libertà assaporata quando per guadagnarsi da vivere aveva la possibilità di «annodare, tingere, pulire e disegnare tappeti come un artista. Puoi metterci i tuoi pensieri in un tappeto». Per tingerli aveva imparato anche le tecniche di Isfahan, ma prima ancora da ragazzo aveva iniziato come apprendista nel suo paesino, girando la campagna alla ricerca dei fiori e delle radici con cui riprodurre i colori dei fili dei tappeti antichi. La fonte cui guardare poteva essere anche la livrea variopinta degli uccelli migratori, segreto sul quale si sofferma il romanzo "La casa della moschea". Protagonista è questa volta un ricco mercante di tappeti e capo del bazar. La moglie attende ogni anno la fine dell'autunno per catturare temporaneamente i volatili diretti dalla Russia asiatica verso i loro nidi sulle palme da dattero del golfo Persico. «La casa - scrive Kader Abdolah - traeva ispirazione dalle penne degli uccelli per i colori e i disegni dei tappeti. Il tempo aveva insegnato ai suoi abitanti che tra gli uccelli migratori ce n'era sempre qualcuno con le penne di un colore particolare o con un disegno mai visto». Munite di lente d'ingrandimento, matita, tavolozza e pennello le donne copiavano i motivi da passare ai disegnatori per essere successivamente trasferiti sulla lana. Trascorrono gli anni (ma non è ancora scoppiata la rivoluzione del 1979) e il bazar si trova a dover subire la concorrenza di un'infinità di fabbriche spuntate come funghi: «Fino a poco tempo prima, nessuno avrebbe mai comprato un tappeto da pochi soldi, fatto in serie, che puzzava di plastica, mentre adesso era un articolo sempre più reclamizzato».
Dal 1970 a oggi, Armani e Binecchio - che hanno chiamato la loro galleria Malair (in via XX Settembre), con il nome del tappeto persiano che per primo li aveva conquistati per i suoi rossi aranciati - hanno portato a Piacenza tante testimonianze di un'arte antica, da secoli ponte tra oriente e occidente (i tappeti sono stati importati a migliaia, tramite le repubbliche marinare, fin dal Trecento) e da tempo si interrogano sul futuro della loro collezione: «Vorremmo che non venisse dispersa. Stiamo pensando a una sua fruizione pubblica, attraverso la donazione a un ente o una fondazione. Ci piacerebbe rimanesse per sempre a Piacenza». Intanto, su appuntamento, per gruppi e classi delle scuole sono possibili visite guidate alla mostra (ingresso gratuito, negli orari di apertura dei Musei Civici), per illustrare gli esemplari esposti, le tecniche con cui sono stati realizzati e da lì ampliare il discorso sui possibili criteri valutativi di un tappeto, cominciando ad allenare l'occhio sui dettagli da non trascurare mai. Ciascun pezzo ha una sua vicenda, legata a remote località o a famosi rivenditori. «L'Ushak, di circa 6 metri per 5, lo vidi - rievoca Armani - nel laboratorio di Romolo Battilossi a Torino. Me ne innamorai subito e lo comprai».

Anna Anselmi

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