Giovedì 21 Gennaio 2010 - Libertà
«Vi narro un decennio
di militanza e di crisi»
Lo storico De Luna stasera in Fondazione presenta
il suo libro "Le ragioni di un decennio. 1969-1979"
piacenza - "Noi che buttavamo tutto in aria / noi che c'era un senso di vittoria / come se tenesse conto del coraggio la storia…". Quel "noi" è un bell'attacco di Giorgio Gaber in una delle sue più significative canzoni di un'epoca, I reduci, e il brano dà il senso anche al libro di Giovanni De Luna, docente di storia contemporanea all'Università di Torino che ha scritto Le ragioni di un decennio - 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria (Feltrinelli).
Il volume sarà presentato stasera alle 21 all'Auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano, presenti il critico letterario Piergiorgio Bellocchio, fondatore di Cittàcomune e tra i leader dell'extrasinistra piacentina negli anni Settanta, e don Gigi Bavagnoli. Quel "noi" è evidente anche nel libro e rischia di sovrapporsi al lavoro scientifico di De Luna, che a suo tempo è stato un dirigente di Lotta Continua a Torino fino al congresso che, nel novembre del 1976 a Rimini, ne avviò lo scioglimento. Premessa necessaria, questa, per capire gli obiettivi del lavoro dello storico torinese che vanno oltre il dato personale, il ricordo, il "come eravamo", tentando di mettere alcuni paletti, di fissare il senso della storia tra tante storie, giuste o sbagliate che siano (state): «Quel periodo - dice - è connotato da una militanza sospesa tra passato e futuro. Un elemento in particolare segna quella generazione e Lotta Continua in particolare: la mancanza del partito come forma aggregante, che in passato aveva determinato il percorso biografico e politico di tanti giovani, quello all'interno del quale erano cresciute e si erano formate più generazioni. Il partito non è più un riferimento, un punto d'arrivo». Aggiunge: «Ho voluto ricostruire la memoria di molte vittime che la storia degli anni Settanta e del terrorismo rischiava di cancellare, persone come Tonino Micciché, ucciso nell'aprile del 1975 a soli 25 anni da una guardia giurata. Micciché era un operaio licenziato dalla Fiat, un immigrato dalla Sicilia, un simbolo di ciò che Lotta Continua era diventata in quegli anni». Nel libro di De Luna emerge una Torino in cui Lotta Continua aveva una sua peculiarità. Come il rapporto stretto, quasi cordiale, con la sinistra ufficiale e col Pci: «Torino con la Fiat ha rappresentato un'anomalia. Il legame era il sentimento antifascista fortissimo in città, che a sua volta discendeva direttamente dalla Resistenza e dalla tradizione del Partito d'Azione, grazie alla presenza di Norberto Bobbio, Carlo e Alessandro Galante Garrone, Franco Antonicelli e Primo Levi tanto per citare qualche nome». Continua: «Il rapporto con la politica in quegli anni è improvvisamente legato alle proprie scelte individuali, quasi l'individuo andasse incontro a un appuntamento con la storia, fuori da ogni dimensione collettiva, assumendosi una personalissima responsabilità. Uno degli slogan che meglio esemplificano questa dimensione è "sei quello che fai"».
Sulla violenza di quegli anni: «Il movimento passa in quel periodo da una violenza difensiva a una violenza offensiva. Lotta Continua viene letteralmente spazzata via per la sua manifesta impossibilità di fronteggiare la violenza armata delle Brigate Rosse. Prima cerca di rendersi alternativa all'interno del movimento stesso, poi si muove espressamente e frontalmente contro la deriva armata, contro le Brigare Rosse, però è troppo tardi. L'emergere sempre più solido del terrorismo esautora anche un'esperienza solida come Lotta Continua. Negli anni Settanta si è vissuto forse l'ultimo strascico di un'Italia novecentesca. Quando si parla di lotta politica violenta, non si deve dimenticare che il regime fascista arrivò il potere con la violenza. La dittatura fascista ha inoculato nella nostra società tossine difficili da smaltire, la cui elaborazione è lunga e non priva di difficoltà. La violenza del movimento operaio, invece, è sempre stata difensiva, la stessa che è stata poi ereditata dal ‘68. Ma dopo la strage di Piazza Fontana e i fatti successivi, comincia a farsi largo una sorta di pericolosa rassegnazione: se lo Stato uccide Pinelli, allora bisogna prevenire lo Stato. Questa è stata l'anticamera del terrorismo».
Conclude: «Per quanto mi riguarda io sono per lo slogan "meno memoria, più storia". La memoria è un processo parziale. In questo libro, e in generale nel mio lavoro, ho cercato di accordare il mio sguardo di testimone diretto con i principi di una ricerca storica, attingendo molto dal senno di poi, nella speranza di poter godere così di una profondità di giudizio che altrimenti rimarrebbe preclusa». Infine sui giovani di oggi: «Le nuove generazioni hanno poco da imparare da noi. La nostra è ormai un'esperienza muta, semplicemente perché è cambiato il lavoro, la fabbrica, gli operai, il conflitto, lo stato. Io credo che i giovani dovrebbero prendere distanze sempre più nette dalla generazione dei padri e assumere un'identità irriducibile ad altre passate: il mondo contemporaneo non ammette anacronismi. E' necessaria dunque una rottura. Non si può pensare che la generazione attuale per affermarsi debba ripercorrere un percorso che, di per sé, nel mondo di oggi non sarebbe più ammissibile».
Mauro Molinaroli