Sabato 17 Ottobre 2009 - Libertà
Alberto Reggiani: i miei 40 anni di medicina
In un libro il chirurgo-urologo piacentino fa il punto
Il professor Alberto Reggiani, chirurgo-urologo, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche, monografie e relazioni a congressi nazionali e internazionali. Ha voluto però fissare con un suo nuovo lavoro, un libro - Edizioni Pendragon di Bologna - dal titolo "L'albero di Ippocrate" (che sarà presentato alla Fondazione di Piacenza e Vigevano, in via S. Eufemia, martedì alle 18, da Eugenio Gazzola e dalla professoressa Cristina Piacenza presente anche l'autore e il direttore del nostro giornale Gaetano Rizzuto), la sua esperienza di medico a contatto non solo con i malati, ma anche con chi li accompagna, con persone che possono essere di altri Paesi e altre culture.
Dal libro emerge in Reggiani una vocazione a confrontarsi continuamente con diversi modi di vita - opinioni etiche, religiose, legislazioni dei vari paesi - e un modo di intendere la professione che deve essere svolta nel pieno rispetto delle scelte altrui. L'autore, che è nato a Piacenza e che a Travo, dove risiede il fratello Giorgio, avvocato, torna spesso, esprime la sua esperienza non tanto dal punto di vista scientifico ma da quello professionale e sociale. Ha alle spalle quarant'anni di attività e di vita universitaria, ospedaliera e con qualche sporadico ma intenso momento africano. Si è formato presso la Clinica Chirurgica e Urologica dell'Università di Bologna. Ha diretto l'Unità Operativa di Urologia dell'Arcispedale Sant'Anna di Ferrara e, richiamato a Bologna, ha diretto il Dipartimento di Nefrologia e Urologia del Policlinico Sant'Orsola-Malpighi.
Com'è nata l'idea di questo libro, nel quale lei difende la laicità di un mestiere che - con gli anni - ha mutato pelle.
«Avevo bisogno di fare il punto sulla mia professione, dopo quarant'anni. Questo libro è un percorso e un viaggio con me stesso. Nel mio itinerario professionale c'è stato un costante confronto con la vita, che ha stimolato pensieri, riflessioni, che ho nella mente. L'evoluzione tecnologica in medicina, fa perdere la memoria. Ma la memoria non è la conoscenza sterile del passato, è il ricordo e il racconto del vissuto, che resta vivo in quanto c'è un presente. Quando si è medici, i ricordi diventano una storia personale, che vuole ricordare e raccontare i momenti, i casi, le situazioni sociali, ambientali, etiche in cui la medicina ha dovuto e deve fare i conti con la vita. Questa è la sintesi del mio libro».
Lei sostiene che nella professione del medico, l'insieme delle teorie e delle pratiche esercitate per conservare o recuperare la salute, ci sono due momenti importanti: quando si comincia e quando ha fine il mestiere.
«Quando si comincia, si può avere l'occasione e la fortuna di lavorare in un ambiente interessante e piacevole: in tal caso si lavora volentieri. Al contrario ci si può trovare nelle condizioni di iniziare la professione in un contesto poco stimolante e che non piace, e allora si lavorerà mal volentieri. Chi lavora con piacere è disposto a fare rinunce economiche o a sacrificare il proprio tempo pur di poter continuare un lavoro gratificante, interessante. Chi invece si trova in condizioni sgradevoli non è disposto ad alcuna rinuncia e, visto che il lavoro non lo gratifica, cerca solo di farlo rendere economicamente. Sotto il profilo etico, la professione deve essere svolta correttamente in entrambi i casi. La differenza sta nel rapporto della professione con la vita: la professione che completa la vita nel primo caso, la vita che supplisce alla professione nel secondo. Il limite della pensione per un medico è più teorico che pratico. Credo che la vita professionale di ogni medico vada divisa in tre periodi: il primo dedicato alla ricerca, allo studio, al bisogno di fare esperienza; il secondo caratterizzato dalla routine e dalla casistica; il terzo rivolto a un esercizio più attento, disinteressato e accurato della professione».
La chirurgia ha fatto passi da gigante, lei è stato tra i primi in Italia a compiere un intervento di trapianto del rene.
«Eravamo alla fine degli anni Sessanta. Oggi è cambiato tutto: il chirurgo non incide più con il bisturi cute e parete muscolare, ma inserisce quattro, cinque tubi del diametro di 0,5-1 centimetri. Siamo nell'epoca della videochirurgia. Nel 2007 sono stati eseguiti 85mila interventi chirurgici e si prevede una crescita annua del 50 per cento. La chirurgia è una professione con precise caratteristiche culturali, di esperienza, tecnologiche, ma anche artigianali. Il chirurgo opera con le mani, che a loro volta sono guidate dal cervello, dove risiedono tutta la sua esperienza, professionalità e cultura specifica, alla quale è necessario il giusto supporto tecnologico. Il medico, comunque, deve sempre attenersi alla valutazione clinica e al principio primario di lenire il dolore».
La medicina ha contribuito all'aumento della vita media allungando l'aspettativa di vita delle persone?
«Penso proprio di sì. Tutto ciò deriva dalla più generale evoluzione tecnologica e scientifica. In altre parole non è giusto domandarsi se la medicina ha allungato la vita. La vita si è allungata in conseguenza dello sviluppo complessivo sociale, economico, culturale. In questo sviluppo è compresa la medicina, non come causa ma come strumento di allungamento della vita. Se l'aumento della vita media continuasse con il ritmo di questi ultimi cinquant'anni, fra venti o trenta vivremmo oltre il secolo».
E' cambiata la cultura, è vero, ma l'errore medico viene oggi amplificato rispetto al passato.
«Credo che non ci sia medico che non abbia, nella sua storia professionale, da rimproverarsi qualche errore. Ci sono anche casi in cui l'errore è dovuto a cause ambientali, anatomiche o anche induttive. Non si dovrebbe più sentir dire: vai in quell'ospedale perché ti curano bene e non in quell'altro dove lavorano male. Ci sono, è vero, i centri detti di eccellenza per patologie complesse. Ma per la patologia comune non devono esserci differenze fra un posto, e l'altro, fra una regione e l'altra, fra una città e l'altra».
MAURO MOLINAROLI