Sabato 3 Ottobre 2009 - Libertà
«Podestà e la sua Piacenza dalla cultura nascosta»
In occasione della presentazione del volume "Dark Art. Fold of light" dedicato alle opere del pittore
piacentino in programma oggi pomeriggio alle 18 nell'auditorium della Fondazione di Piacenza
e Vigevano il noto scrittore e opinionista Giampiero Mughini traccia un articolato profilo dell'artista
mettendo in risalto alcune figure di primo piano del panorama intellettuale e artistico cittadino
Oggi alle ore 18 nell'auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano è in programma la presentazione del libro d'arte "Dark Art. Folds of light" dedicato al pittore piacentino Giampiero Podestà con testi di Gerard Georges Lemaire e Tommaso Trini Castelli. A presentare il volume sarà lo scrittore Giampiero Mughini al quale abbiamo rivolto alcune domande su Podestà e su Piacenza.
Come ha conosciuto Podestà?
«Devo al gallerista Franco Soligo, l'aver conosciuto Podestà. O forse dovrei dire riconosciuto, da quanto lo sento affine in tante cose dell'arte e della vita, e non è un caso che noi si abbia in comune il nome di battesimo. Soligo mi telefonò poco prima di quell'incontro. Voleva parlarmi di un pittore piacentino che io non conoscevo, Podestà per l'appunto, un pittore al quale lui teneva molto. Venne a casa mia, mi diede in regalo uno dei piccoli quadri di Podestà sul tema della vagina femminile che lui aveva avuto in mostra qualche anno prima, una mostra che s'era meritata l'attenzione critica di Achille Bonito Oliva, uno che di solito non sbaglia un colpo. Risposi comunque che la cosa mi interessava, ne avremmo parlato meglio all'avvicinarsi dell'evento di cui avrei dovuto scrivere una sorta di prefazione al catalogo. Pochi mesi dopo quel nostro incontro, un ictus gli ha tolto la vita. Passarono un paio d'anni e questa volta fu Podestà stesso a telefonarmi. Lui aveva fatto sei litografie per un libro raffinatissimo edito in 59 esemplari per le Edizioni d'arte Soligo, un libro dedicato e intitolato al Salto Angel e di cui il giornalista piacentino Enio Concarotti aveva scritto i testi di accompagno e di evocazione. Podestà voleva che andassi alla serata di presentazione del libro alla Fondazione di Piacenza e Vigevano, dove avrei avuto accanto Rossana Bossaglia. Gli dissi di si, che mi faceva piacere l'invito, che mi mandasse il libro. Me lo mandò».
Di cosa si trattava?
«Sei litografie sul tema di quell'acqua che rovina giù dalla cascata più alta del mondo, quella fessura liquida e incandescente. Sei litografie scabre e intense che a me parvero molto belle, da quanto tutto vi era ridotto all'osso. Cominciavo a capire, anche se ancora non capivo tutto. Capii qualcosa in più quando andai a Piacenza; capii guardando i quadri che riempiono ogni centimetro quadro delle pareti di casa Podestà. Capii quando una sera andammo a cena alle porte di Piacenza, al Castello di Rivalta, e in una sala antistante il ristorante di Marco Piazza c'erano quelle gran coppe e quei salami piacentini appesi al soffitto, e se non è arte anche quella. Avevo capito. Quasi tutto, ma non ancora tutto».
In che modo ha colto il significato delle opere di Podestà?
«A capire appieno l'arte di Podestà ci sono arrivato tardi. E non me ne addosso la colpa, perché lui è un artista di commestibilità nè facile nè immediata. Un artista che se ne sta in trincea, fiero e risoluto. Ho capito davvero la forza di quel lavoro e la sua sigla linguistica quando ho trovato le sue opere "allestite" (da lui stesso) alla fiera d'arte contemporanea di Forlì nel novembre 2005. In un grande stand a lui interamente dedicato e dove erano in mostra la bellezza di 150 "Organi vitali" ciascuno insaccato nel suo cellophane, ciascuno così mobile e così turgido che ti vien voglia di palparlo. Lì accanto le "Five Women", quattro forme monocrome alte e rettangolari, ciascuna interrotta da una sua ondulazione che risuonava da mistero della femminilità ma anche da invito alla scoperta della femminilità. Quattro "Women" erano blu, una rossa. Quattro stavano allineate su una parete, la quinta su un'altra parete».
Esattamente così, e non in un altro modo?
«Non uno dei 150 "Organi vitali" lo avresti potuto spostare di cinque centimetri verso l'alto o verso il basso. Ecco in quel momento ho capito e sono stato emozionalmente sommerso da quello che avevo appena capito. Ecco perché ci vuole un'intera parete perché il lavoro di Podestà acquisti tutto il suo significato, tutta la sua valenza, tutta la sua espressività. Perché quei colori talmente iridescenti facciano valere appieno i loro diritti. Perché quelle forme apparentemente ripetute fino all'ossessione prendano tutta la loro orchestrazione musicale. E dico orchestrazione come lo si dice dell'esibizione di una band, dove è di volta in volta il momento della chitarra elettrica, quello del pianoforte, quello del basso. C'è tantissima musica nel lavoro di Podestà, ma perché questa musica suoni appieno occorre avere di fronte tanti pezzi, accostati l'uno all'altro a segnarne la comunanza e la differenza. A segnare la costanza e la varietà di una ricerca formale che ha del religioso».
Come vede il rapporto tra Podestà e la sua città?
«Piacenza è una città difficile. Al primo sguardo ostica, chiusa, una città in cui le pietre antiche comunicano più di quanto non facciano i suoi restii cittadini. E poi invece ci trovi tutto. Negli anni Trenta ci avresti trovato libri e le opere d'arte originali di uno dei personaggi chiave del secondo futurismo, un artista tanto geniale quanto irregolare, Osvaldo Bot. Ma anche un eccezionale fotografo che di Bot fu sodale e amico, Gianni Croce, ed è un delitto che nelle rassegne della grande fotografia italiana del Novecento il suo nome non venga ricordato quanto meritano quelle sue bellissime foto sospese tra surrealismo e futurismo».
Parliamo degli anni Sessanta.
«Negli anni Sessanta a Piacenza ci avresti trovato la diade umana e intellettuale costituita da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, i due gran borghesi in lotta con la loro classe di appartenenza che daranno vita ai Quaderni piacentini, la più bella delle riviste che alimentarono le passioni e le utopie del Sessantotto italiano».
Come si inserisce Podestà in quegli anni?
«Per il Podestà men che trentenne, degli anni a cavallo tra gli ultimi Sessanta e i primi Settanta, Piacenza è assieme una postazione e un trampolino da cui scattare "altrove". Lui si guarda attorno, annusa, scalpita. L'arte, l'arte, l'arte. Vivere di arte. I quadri che va a vedere nelle gallerie, i primi quadri che riesce a comprare, i quadri che stanno nelle collezioni di amici ricchi. A Piacenza è amico della famiglia di Oreste Carini, l'antiquario che aveva messo sotto le sue ali protettive Bot, un artista che nel secondo dopoguerra stentava a trovare di che mangiare due volte al giorno. Alcuni degli oggetti poveri creati da Bot negli anni Cinquanta sono ancora a casa di Podestà. Gli invidio molto una lumachetta in legno che si avvolge e ha l'aria di stare per guizzare. Del Bot anni Cinquanta Podestà ricorda la volta che stava partecipando a uno specie di concorso pubblico in piazza Cavalli, dov'erano in tanti a dipingere il Palazzo Gotico e non c'era paragone tra la bellezza di quello che lui stava dipingendo e il lavoro degli altri che gli erano accanto, naturalmente lui non vinse affatto».
A Piacenza Podestà debutta come pittore pop.
«Quelle opere sono state come requisite da un gran mercante milanese che le custodisce gelosisamente, tanto da esitare persino a prestarle alle mostre. In assenza delle opere da guardare e da tastare, Podestà mi ha mostrato le foto scattate a una sua mostra del tempo. Non potevo non soffermarmi davanti alla foto di una Brigitte Bardot in plastica e in altezza naturale che se ne sta seduta su una sedia, l'aria di chi si accinge a divorare gli uomini. Podestà l'aveva vestita di una cappa in pelle e addobbata di un gran paio di stivali, una delle sue tante armi letali. L'ho rimproverato dicendogli che una Barbot siffatta andava messa in shorts e i più corti possibili, a mostrare le sue gambe indimenticabili. Podestà m'ha risposto che un po' avevo ragione, ma che la Piacenza del tempo non era adatta a tali exploit sensuali».
E poi?
«Poi ci sono i primi viaggi a Caracas e dunque i primi di un centinaio di viaggi a New York. La Grande Mela con le sue gallerie d'arte e i suoi ristoranti e il tempo della sua vita urbana, diventano "l'altrove" per eccellenza, la città di cui gli piace tutto. "L'isola più bella del mondo" così lui definisce Manhattan. La nobile e semplice città dove vede per la prima volta i quadri di Jasper Johns, quello che lui giudica l'artista più importante della pattuglia dei pop americani. La città dei musei, i più grandi e i meglio organizzati del mondo. La città dove per più di trent'anni Podestà alloggia al Delmonico Hotel in una suite dove aveva abitato Bob Dylan e che gli era dedicata, poi al Regency Hotel sempre in Park Avenue. La città del suo gallerista di fiducia, quello che gli aveva organizzato una mostra dal titolo "Sex sex sex". Una mostra che non deve aver lasciato indifferente Madonna, la cantante e showgirl che abitava lì dirimpetto alla galleria».
E l'innamoramento per Caracas e il Venezuela?
«Caracas è vicina e lontana, lontana geograficamente ma vicina emozionalmente. L'attraversare in una direzione e l'altra l'Oceano Atlantico, e questo ormai da trent'anni, è il sintomo maggiore di quella ricerca spasmodica della vita che fa da fondamento al Podestà artista e al Podestà uomo. E' un piacere ascoltare i racconti di quei suoi viaggi in Concorde, l'accuratezza del menù, la prelibatezza dei vini, le posate d'argento. Si faccia dire di quel pesce rosso bagnato nell'acqua salata e cucinato sulla brace senza nessun altro intingolo su un'isola caraibica. Se queste cose le dicono poco, allora la pittura di Podestà non fa per lei».
Perché?
«Perché quella pittura, quella ricerca ostinatissima su poche forme e a forza di alcuni colori fondamentali, è esattamente com'è l'uomo. Parlando con lui di quadri, immancabilmente il discorso rimbalza sui suoi viaggi, sugli alberghi da lui prediletti, su quel ristorante newyorchese dove ti preparano la bistecca con la fiamma ossidrica, dei vini di cui Podestà è un degustatore raffinato e addirittura un collezionista. Nella sua casa piacentina è un tutt'uno tra il momento in cui ammirare i quadri appesi alle pareti, i libri accatastati in ogni dove e il momento in cui scendere giù in cantina a palpare amorosamente le bottiglie di Sassicaia, Opus One e quel buon vin santo di Barattieri che verranno bevute nelle cene con gli amici più fidati».
«I miei quadri sono quello che sono io, quello che è la mia vita» ha detto una volta Podestà.
«Pensiamo alle installazioni alla Fondazione Mudima di Milano, a mio giudizio uno dei momenti più alti del suo lavoro. Una parete colmata per intero. Quadri grandi e grandissimi che devi tenere vicini, in modo che il visitatore della galleria o del museo possa trascorrere lo sguardo dall'uno all'altro e viceversa. Se da collezionista dovessi scegliere un'opera di Podestà prenderei un'intera parete della Fondazione Mudima e me la metterei in casa. Invidio quel collezionista americano, e personaggio glorioso del cinema contemporaneo, che di quadri di Podestà ne ha comprati un centinaio tutti in una volta e se li è fatti mettere in casa al modo di un'installazione che percorre tutta una zona di casa sua. Il lavoro di un italiano del secolo Novecento che è di casa in tutto il mondo, a cominciare da quella Praga nella cui Biblioteca Nazionale è stato presentato la scorsa primavera il suo ultimo lavoro, quel poderoso libro sul colore nero spinello, lo guardi ed è come se ti tagliasse, si intitola "Dark Art. Folds of light". Lo vedremo questo pomeriggio in Fondazione».
di CARLO FRANCOU