Sabato 5 Settembre 2009 - Libertą
Quando la poesia ci mette in gioco
Calorosi applausi al Farnese per "I am America" diretto da Biagini
PIACENZA - Un vessillo non basta, serve coscienza delle proprie radici. Nella critica sociale e politica la pars destruens non č tutto, bisogna mettersi in gioco. Additare e guardare alla propria terra come entitą altra č un madornale errore. La musica, la prossimitą fisica, il canto e la danza - in una parola, il teatro - possono farsi strumento di ricerca privilegiato, una ricerca che sublimata nella parola poetica, nel gesto e nella voce, si fa catartica. Questo sembra insegnare I am America: gią dal titolo, che contiene un messaggio lapalissiano. «Lo stato siamo noi», mi insegnava un'illuminata maestra della scuola media: un pensiero utopico, ma se tutti ne fossimo convinti, si potrebbe davvero sperare in qualcosa di meglio.
I am America č l'"Anteprima di uno spettacolo in poesia", la pičce andata in scena l'altra sera a Palazzo Farnese per il festival teatrale Lultimaprovincia curato dai Manicomics, prodotta dalla Fondazione Pontedera Teatro e diretta dal regista Mario Biagini, co-direttore del Work-center of Jerzy Grotowski and Thomas Richards. Č il frutto di due anni di laboratorio e di lavoro svolti insieme agli undici giovani, scintillanti, elettrici attori della compagnia nel Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale che lo stesso Biagini guida, appunto, a Pontedera. Č una corposa sequenza di canzoni, quasi tutte poesie del grande Allen Ginsberg, pilastro della Beat Generation, messe in musica da Biagini e dagli attori nell'ambito del progetto Open program. Gli altri pezzi sono antiche canzoni di lavoro degli Usa del sud, quei canti degli schiavi africani da cui deriva gran parte della musica di oggi, alla riscoperta delle nostre radici.
Entrando in sala, gli attori ti accolgono, ti fanno sedere. Meglio a terra, un punto di vista privilegiato. I costumi sono pensati, ma provengono dal loro guardaroba, pieni di colore e di vita. Piedi nudi o stivaletti, gonnellone o pantaloni, cappello o occhiale da sole, indossano quello che pił li fa stare a loro agio. Gente comune, che vive di sogni e frustrazioni, aspirazioni e sofferenze. Si muovono con una libertą solo apparente, ma coreografie e spostamenti, contatti e danze, finemente calcolati, appaiono come sussulti spontanei e naturali. C'č tanta tecnica nel loro agire scenico, piegata perņ alla vibrazione, che passa innanzitutto dallo sguardo, che non dą tregua allo spettatore, lo chiama in causa, imbarazzandolo inizialmente per poi coinvolgerlo alla pari. Il loro canto č da brivido, sono un vero coro di splendide voci allenate e orchestrate in una polifonia da lasciare attoniti.
Lo spettacolo č un lungo dialogo (in inglese) dal sapore un po' gitano, un po' psichedelico, tra l'America (principalmente impersonata da Marina Gregory) e i suoi splendidi figli (Agnieszka Kazimierska, Felicita Marcelli, Alejandro Tomąs Rodriguez, Itahisa Borges Méndez, Lloyd Bricken, Cinzia Cigna, Davide Curzio, Timothy Hopfner, Chrystčle Saint-Louis Augustin, Julia Ulehla), in un fluido susseguirsi di domande e risposte, in cui la patria si racconta e i suoi cittadini la interrogano, accusano, le rispondono, tra lotte e fallimenti, ricordi e preghiere, appelli e speranze, senza tralasciare quasi nulla di ciņ che il Secolo Breve ha consegnato alla storia.
Alejandro, a un tratto, sul finire, prende coscienza: «Sono io l'America. Mi rimbocco le maniche, America». Non si punta il dito, in questo spettacolo, dicevamo. "Non č mai troppo tardi", "generositą" e "meditazione" sono le parole chiave del bis di chiusura, dopo varie tornate di applausi scroscianti. Con un messaggio sottinteso: dove c'č scritto America, ciascuno metta il nome del proprio paese, e forse un giorno saremo mondo.
Pietro Corvi