Venerdì 3 Luglio 2009 - Libertà
il cavaliere azzurro Cortile di Palazzo Farnese gremito per l'attore in scena tra monologhi e canzoni del Signor G. in una performance da ricordare
La rivoluzione, quella vera, non è astrazione, ideologia, non è una semplice idea. Passa attraverso il personale, la persona, il corpo. Un'idea va mangiata, assimilata, vissuta sulla propria pelle. «Un'idea, un concetto, un'idea, finché resta un'idea è soltanto un'astrazione. Se potessi mangiare un'idea avrei fatto la mia rivoluzione»: così cantava Giorgio Gaber nel celebre testo Un'idea scritto con Sandro Luporini nel ‘74. La canzone fa da epilogo e fornisce il titolo dello spettacolo Se potessi mangiare un'idea proposto da Gioele Dix l'altra sera nel cortile di palazzo Farnese, strapieno di persone di ogni età e generazione che si riconoscono nella "rivoluzione" di Gaber e nella restituzione rispettosa che ne fa un suo speciale ammiratore come Dix, socio onorario della Fondazione Gaber che ha prodotto lo spettacolo.
Spettacolo che a Piacenza è approdato grazie a Paola Pedrazzini, direttrice artistica del Cavaliere Azzurro Festival. Gioele Dix, dopo aver debuttato a Milano nelle celebrazioni per Gaber (in scena nell'aula magna della Statale) ha proposto il suo omaggio al Signor G. a Piacenza dopo una sola tappa di tournée, ad Asti.
Ha quindi tutta l'energia, la forza, la voglia di raccontare e cantare Gaber. E il pubblico lo sente, lo applaude, partecipa. Canta i versi più famosi, si commuove di fronte a quelli più cupi, ride sulle storie apparentemente più lievi, e annuisce. Sì, perché ogni canzone di Gaber è un "pezzo" di noi, del nostro presente. Del nostro futuro.
L'idea di "mangiare un'idea" fornisce la chiave di lettura dello spettacolo, che seleziona tredici canzoni dall'immenso repertorio di Gaber. Una scelta percorsa da un filo rosso. Ne Il corpo stupido il tema è sempre quello: come conciliare l'astratto e il concreto, il fisico e la mente. Nell'approccio con una donna liberata, femminista, emancipata, Gaber canta: «Non riesco a politicizzare l'olfatto» e riesce a fare poesia (e ironia) su una mancata erezione. Gaber passa dal collettivo (la rivoluzione) al personale (il concetto che "prende" corpo) e, viceversa, dal personale (la notte in bianco con una donna) allo scenario più attuale, sociale, politico, culturale.
Dix avverte: «Questo è il nostro Gaber». Nostro perché sul palco con lui ci sono due musicisti di grande talento e presenza scenica: Silvano Belfiore e Savino Cesario.
Gioele Dix costruisce l'omaggio a Gaber con rispetto. Ma anche con coraggio: nella selezione dei brani, negli arrangiamenti, nell'accostargli i suoi pensieri personali. Mai asettico nel porgere le celebri canzoni gaberiane, ma capace di farci entrare nel Gaber "pensatore". Attacca con il blues de I Borghesi, «che sono tutti dei porci, più sono grassi più sono lerci» (canzone del ‘71 che già contiene l'autocritica di un'intera generazione) per esplodere poi con E' sabato («C'è un'aria strana, non facciamo l'amore da una settimana»). Si racconta la vita di coppia, l'abitudine, la quotidianità. Tutti ci si riconosce. Si ride amari. Gaber affronta i tabù: l'erezione, l'amore, l'abitudine, il tradire, ma anche le elezioni, la democrazia.
L'autocritica e l'ironia la fanno da padrone anche in L'odore. Dix lascia spazio all'invettiva di Gaber, ma anche alla sua idealità, mischiata alla disillusione, nel lungo monologo Qualcuno era comunista: «Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia. Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il Paradiso Terrestre. Qualcuno era comunista perché si sentiva solo (...) Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona (parte un applauso scrosciante, ndr). Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita».
Il cambiamento, il movimento, la rivoluzione, che passano attraverso la vita. Nel finale Dix ci consegna una canzone che è un ponte sul futuro. Gaber non la eseguì mai dal vivo. «Sembra scritta ieri pomeriggio» dice Dix. E' «L'attesa». «No, non muovetevi / c'è un'aria stranamente tesa / e un gran bisogno di silenzio / siamo tutti in attesa». Dix di Gaber racconta: «Lasciava sempre aperta una porta». Gaber, cupo solo in apparenza, pieno di futuro e di speranza. «Disordinava gli intestini, raccontava la sua personale fatica del quotidiano. Non offriva messaggi». E questa è stata la sua rivoluzione.
di DONATA MENEGHELLI