Martedì 12 Maggio 2009 - Libertà
Libertà, quel piccolo mondo antico
Schiavi: così sono entrato nel giornale-famiglia
Ecco la seconda parte del capitolo "Da Libertà al Corriere, il giornalismo come passione" scritto da Giangiacomo Schiavi, vicedirettore del Corriere della sera e pubblicato sul libro "Cronache in libertà". Curato dall'Associazione Amici del Romagnosi e da Stefano Pareti il volume, edito da LIR Edizioni, sarà presentato martedì 26 maggio, alle 17.30, nell'auditorium della Fondazione.
A metà anni Settanta il quotidiano di Piacenza era una specie di circolo chiuso. Nel giornale che molti chiamavano "dei morti", per lo spazio generoso concesso ai necrologi con fotina, si entrava per cooptazione dopo un esame ai raggi x. Stava cambiando tutto in Italia e nel mondo: contestazione, statuto dei lavoratori, femminismo, divorzio, aborto, perfino la sinistra al governo nella conservatrice Piacenza, ma "Libertà" sembrava immutabile nel tempo, un fortino inaccessibile per tanti di noi. I pochi giornalisti che ci lavoravano erano accomunati da un senso di appartenenza, molti avevano vissuto la stagione eroica del Dopoguerra, alcuni erano compagni di liceo dei fratelli Prati, gli editori, altri venivano dalla chiusura di "Piacenza Oggi". Non c'erano giovani in redazione e anche quelli che dovevano esserlo lo nascondevano bene. "Libertà" era un giornale-famiglia, un piccolo mondo antico che celebrava i suoi riti in una redazione che sembrava una cripta, un luogo per iniziati, un posto talmente unico da sembrare incredibile. Gabbiotti, soffitti bassi, buio a mezzogiorno. Anche le telescriventi erano ufficio, parlatoio, sala riunioni.
Ricordo il brivido della prima volta, quando ho oltrepassato l'androne e la vetrata del centralino, che funzionava anche da sala d'attesa. La porticina della redazione si apriva ogni tanto e sbucava un signore con un gran paio di baffi, sembrava Pat Garrett, uno sceriffo di guardia all'intero giornale. Era il capo delle province, Giacomo Scaramuzza, una leggenda del giornalismo piacentino: nei suoi occhi si leggeva il coraggio di chi ha vissuto un'avventura straordinaria e la può raccontare. Con sottile scetticismo mi informò del cafarnao nel quale mi sarei andato a cacciare, della vita a rovescio di chi lavora nei giornali. Lo lasciai con una giovane aspirante collega, neo corrispondente da San Nicolò. Avevo un appuntamento con il direttore, speravo in qualcosa di buono.
La redazione di "Libertà" a metà anni Settanta era un puzzle a incastri, cronaca e provincia appena dentro, il resto sepolto in un alveare con tanti separé. Per raggiungere Ernesto Prati si attraversava un lungo sentiero: il direttore era in fondo, in piedi, con una libreria alle spalle. Quel pomeriggio aveva in bocca un foglio di carta, un dispaccio dell'Ansa. Capitava spesso di vederlo così, quando non voleva dimenticare una notizia da segnalare: la teneva tra i denti. L'esordio non fu troppo incoraggiante. Disse che l'organico era al completo, che prima dovevo finire Lettere all'università, che potevo comunque fargli avere tre articoli di prova: ne avrebbe tenuto conto. Stop.
Cip e man, assi in redazione
Nel gabbiotto a fianco si sentiva battere a macchina. Un vecchio signore pestava su una gigantesca Remington buona per i mercatini d'antiquariato; mi chiese da dove venivo. Era il cavalier Bertolini, ottant'anni. Consegnava ogni giorno la sua nota sul calcio, sulla boxe o sul canottaggio. Anche da pensionato era un'istituzione.
Più in là c'era la redazione sportiva, di Laurenzano e Tarantola, indaffaratissimi anche nelle corrispondenze per "Gazzetta" e "Stadio". Ma il fuoriclasse della categoria, Luigi Tadini detto Cip, un'enciclopedia ambulante del calcio locale, stazionava altrove con la cornetta del telefono infilata nella spallina della canottiera: picchiava come un matto sui tasti e aveva la sigaretta appiccicata al labbro, come nei fumetti di Andy Capp. Nel corridoio buio come una catacomba c'era anche la scrivania degli spettacoli. Gianni Manstretta era sepolto dai giornali, lui ritagliava sempre qualcosa. "Man", come si firmava nei corsivi da Miss Italia o dai festival di Sanremo, era un inviato speciale vero, l'unico con il physique du role, coi tic e i vezzi della primadonna. A lui erano concessi i pezzi nobili, il colore: faceva di tutto, "Libertà" era il suo palcoscenico ma un po' gli andava stretta: il suo cuore batteva per i settimanali mondani, per i reportages su "Tempo", "Oggi" o "Panorama".
Una Libertà per tutti
Nella città delle caserme militari il giornale sembrava essersi adeguato alle stesse regole, un paludato rigore che qualcuno scambiava per grigiore, una prudenza esagerata, il condizionale come verbo preferito. Guadagnarsi uno spazio negli spettacoli o nello sport poteva anche essere facile, la politica era invece appaltata con cura, certe cronache erano un capolavoro di equilibrismo al quale non era facile essere abilitati. Immaginare un pezzo di rottura contro il sistema, lo status quo, era impensabile. Ma non c'era nessun'altra voce a Piacenza, nessuna stampa minore: il quotidiano dei fratelli Prati aveva triturato ogni tipo di concorrenza, la sua formula che prevedeva di pubblicare tutto il pubblicabile, dalla città e dalla provincia, dalla politica, alla nera, ai nati , ai morti, fino ai promossi nelle scuole e alla zucca più grossa, aveva fatto terra bruciata di ogni foglio in circolazione. L'informazione piacentina, nel bene e nel male, passava dal portone di Libertà, da quell'androne che la sera si popolava di beccamorti e la domenica pomeriggio diventava il "Novantesimo minuto" della provincia calcistica.
Non era "Quarto potere" il modello da imitare, ma l'informazione generalista, si direbbe oggi, globale e locale, che si condensava a volte in modo un po' arruffato nelle pagine dove anche le cadute accidentali avevano dignità di notizia. «Il nostro programma si riassume in quest'ultima parola: Libertà, per tutti e per ciascuno», aveva scritto il nonno, sul primo numero , il 27 gennaio 1883. E Libertà per i fratelli Prati era una parola magica che si traduceva anche nel rispetto per le persone: mai licenziato nessuno.
La linea politica era come l'Arma: fedele nei secoli. Liberale, centrista, governativa. Molta cronaca bianca, ampie concessioni alla nera. Pezzi stringati, secchi. Anche perché si pagavano le corrispondenze a righe. Micragna coi collaboratori: sui compensi vigilava Cetto, il guardiano delle note spese. Elzeviri classici: le firme più lette Ranieri Schippisi e Vittorio Agosti, ma io ricordo "Il cruscaio". Grande spazio ai piacentini in Italia e nel mondo: "Libertà" li faceva sentire a casa loro. Nessuna puzza sotto il naso: anche il bene fa notizia. Via libera a feste, raduni, incontri, vita dei circoli, spazio alle associazioni di volontariato. Un convegno del Rotary o dei Lyons a tre colonne, l'assemblea della Pro loco di taglio, il convegno di Morfasso o Vigolzone può valere un'apertura.
Ogni sera il bancone della tipografia straripava di piombo, il menabò si faceva in diretta, sulla pagina: doveva starci tutto. Si ricorreva al corpo sei, quasi invisibile, per i "Gazzettini" e le "Notizie in breve". Molti nomi per vendere copie. Cresime, comunioni, l'elenco dei promossi nelle scuole: provincialismo spinto, accusavano i detrattori. Con la crisi delle vendite, questa formula l'ha copiata il New York Times.
Fatti separati dalle opinioni. Anzi, opinioni al bando. I commenti li faceva solo Cattivelli, il critico cinematografico. Giulio Cattivelli avrebbe potuto fare l'inviato alla Orio Vergani, il redattore culturale alla "terza pagina" del "Corriere", il commentatore sportivo, il suiveur al Giro d'Italia, l'opinionista. Aveva scelto invece di insegnare e fare il critico cinematografico. Si era guadagnato la stima dei colleghi e dei registi, ma invece di capitalizzare il suo eclettismo aveva scelto la libertà della provincia ai condizionamenti del grande giornale. Scriveva le sue critiche e i suoi commenti a mano, sui fogli protocollo dei compiti in classe. Corsivi caustici, a volte velenosi. Era curioso, svelto di testa : per "Libertà" era una stella polare.
LA BOTTEGA ARTIGIANA
Nel 1976 stavo per perdermi un mondo, l'ultimo scampolo di bottega artigiana nel giornalismo che virava verso le nuove tecnologie. Avevo messo la freccia su Milano, come Recchia, Fiorani, Mori, la pattuglia dei piacentini in fuga. In Università, tra un esame di storia moderna e uno di pedagogia, ero stato arruolato nel gruppo dei collaboratori di un mensile sul tempo libero: mi pagavano anche. Milano era un'altra cosa: brulicava di sgomitanti giornalisti, pubblicisti, scrittori, riscrittori, portaborse, portavoce, addetti stampa. C'era solo da mettersi in fila. E aspettare. I giornali nascevano e chiudevano in un attimo.
Nel '76 c'era "Repubblica". Andai in processione nella sede milanese con un esercito di questuanti, tutti respinti con perdite. Sfumata l'illusione di essere assunto tra i giovani rastrellati in ateneo, avevo ricevuto un'investitura da un collega di antico pelo, Manlio Mariani, futuro direttore della scuola di giornalismo dell'Ordine. "Questo non è più il mestiere di una volta", mi aveva detto senza entusiasmo davanti a un caffè in via Borgogna, dove si facevano i numeri zero. "E' arrivata la stagione dei raccomandati e per quelli come te c'è solo la lista d'attesa". Così si inventò, seduta stante, il modo per togliermi dal mucchio dei pellegrini che sognavano un posto in redazione. "Come sei messo con il giornale della tua città?", mi chiese. "Male, anzi malissimo", risposi. "E allora io ti nomino corrispondente da Piacenza per "Repubblica"". Rimasi un po' stordito: nella formula di "Repubblica" prima maniera non c'erano cronache locali e i corrispondenti dalla provincia non erano previsti. Mariani, vecchia volpe del giornalismo e del sindacato, mi incoraggiò così: "Ci allarghiamo sul territorio. La provincia è meglio di questa bolgia politicizzata. Vai dal direttore del giornale locale, presentati come nostro corrispondente: meglio che essere un signor nessuno. Auguri, giocati la tua occasione e fammi sapere…"
Mi giocai l'occasione. Bussai di nuovo al portone di "Libertà", mobilitando chiunque avesse in qualche modo la possibilità di segnalarmi un'altra volta al direttore. Ernesto Prati aprì uno spiraglio. Il corrispondente di "Repubblica" venne archiviato, mi affidarono a Gianni Manstretta: collaboratore agli spettacoli. Primo test: un'intervista ad Achille Togliani. Cantava alla Sirenella, mi raccontò della love story con la Loren. Titolo su due colonne con foto. La firma sotto il pezzo. La felicità in mano.
Facevo qualche prova tecnica di impaginazione in tipografia con uno straordinario maestro, si chiamava Monza: era stato con Brera alla "Gazzetta", aveva classe e stile. "Devi osare, puntare in alto", diceva. Insieme, puntammo alla luna. Gli avevano affidato "Piacenza e le sue valli", un grigio bollettino politico con i discorsi stenografati del senatore democristiano Giovanni Spezia. De Petro, un tipografo con la vocazione da editore, ne curava la stampa; l'ex direttore di "Piacenza Oggi", Enio Concarotti, lo faceva a tempo perso, ma il sodalizio si era interrotto. De Petro cercava un sostituto a costo zero. Mi segnalò un tipografo, un compaesano con la stoffa del proto: Pietro Libè. C'è da fare questo e questo, diceva De Petro, "Piacenza e le sue valli" l'è drè cal mora, facciamolo vivere un po'". Improvvisammo interviste a sindaci della provincia, viaggi in Comuni dalle giunte traballanti, appuntamenti per i giovani, curiosità spettacolistiche. Rivoluzionammo anche la grafica, in stile "Il Giorno": l'abilissimo Monza governava le mie follie tipografiche con amore paterno, il senatore Dc lasciò fare. Al terzo numero la curiosità portò sul bancone della tipografia che confinava con quella di Libertà anche Filiberto Prati: l'innovazione era gradita.
ATTENTI A QUEI DUE
Li tengo ancora da qualche parte quei giornali spediti per abbonamento ad un pubblico clandestino. "Ne parlo con Marcello Prati", diceva Monza. Mi dava fiducia ma non guadagnavo una lira: per mantenermi all'università facevo i turni in fabbrica. "Repubblica" non pagava, "Libertà" nemmeno. Un giorno invece che dall'editore fui chiamato dal direttore. Mi affidò un libro per una recensione. Era un pamphlet, con un titolo ammiccante: "Olio santo, olio di ricino". Autori: Vito Neri e don Franco Molinari. Avevano fatto loro il mio nome, un regalo a un giovane che sognava di fare il giornalista. Bussai al portone di via Santa Franca: c'erano i miei due temerari fans che avevano rinunciato a critici laureati e a storici togati, rischiando di brutto. Vito Neri mi lasciò un appunto, Don Franco sorrideva benevolo. Dalla cattedra di Storia moderna alla Cattolica aveva appena messo in crisi la Chiesa moderna pubblicando i suoi tabù: continuava a provocare discussioni e polemiche. Tornai a "Libertà" con il pezzo, affidato a Cattivelli per la terza pagina. "E' buono", bofonchiò davanti a tutti in tipografia. Era un visto d'ingresso, il mio lasciapassare per Libertà.
(2 - SEGUE)
GIANGIACOMO SCHIAVI