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Domenica 14 Novembre 2004 - Libertà

Shorter, note a perdifiato per sax e quartetto

Ovazioni per il "braccio destro" di Miles Davis, sul palco con John Patitucci, Danilo Perez e Brian Blade municipale
Tutto esaurito e grande successo per la performance del jazzista che ha aperto il Piacenza Jazz Fest 2005. In scaletta i brani inediti del nuovo album e l'acclamato bis "Joy rider"

Prometheus unbound (Prometeo liberato dalle catene) suonava il titolo di una delle più ardimentose improvvisazioni collettive che l'incredibile quartetto guidato da un monumento vivente della storia del jazz come il saxofonista Wayne Shorter ha lasciato esplodere l'altra sera sotto la volta del Municipale in un concerto di bellezza impressionante ("Io l'ho sentito quattro volte nella mia vita, ma non l'ho mai sentito così", raccontava un appassionato di lungo corso) organizzato dal Piacenza Jazz Club con Comune, Fondazione di Piacenza e Vigevano e Fondazione Libertà. Qualcosa di prometeico (a volersi immaginare un Prometeo affrancato dalla dimensione tragica, un eroe che non debba scontare la propria audacia con alcuna condanna), il personaggio di Shorter, agli occhi degli amanti del jazz, ce l'ha sempre avuto. Come il semidio greco che rubò il fuoco agli Dei per farne dono agli umani, il saxofonista di Newark, New Jersey, è stato a lungo, a modo suo, un ladro di fuoco: un artista ripetutamente destinato a strappare dal cielo le scintille di nuove, inaudite forme di ispirazione, da condividere con una vastissima comunità di ascoltatori; possibilmente più vasta di quei circoli carbonari che i "jazz hipsters" si erano ridotti a essere già negli anni Cinquanta. E' difficile, in questi casi, non cadere nella retorica; e forse sarebbe persino sbagliato tentare di non caderci, perché ripensare alla carriera di quest'uomo, e al suo ruolo nella storia degli ultimi quattro decenni di musica afroamericana, dà le vertigini. Dovunque ci sia stata una rivoluzione nel jazz (con la sola eccezione del movimento "free") negli ultimi quarant'anni, lui c'era: sempre in un ruolo determinante. Eccolo braccio destro di Miles Davis negli anni Sessanta, eccolo nei Weather Report quando il "virus" dei ritmi binari, delle tastiere elettroniche e delle chitarre elettriche dilaga nell'organismo del jazz e nulla è più come prima, eccolo diventare la stella internazionale per eccellenza del sax soprano (un intenso e appassionato sax tenore è l'altro, fondamentale polo della sua ispirazione) e, soprattutto nei suoi dischi da solista, continua ad affinare la sua vocazione di compositore immenso, dotato di eclettiche capacità di sintesi stilistica eppure magicamente originale. E rieccoci all'altra sera, al teatro gremito che non ci stava più neanche uno spillo, alla liberatoria standing ovation del "dopo"; ma anche alle code lunghissime pre-apertura del "prima", agli appassionati che si erano fatti centinaia di chilometri da città lontane per calare su Piacenza nel freddo e nella nebbia, agli amici che non vedevi da dieci anni ma eri certo di incontrare lì perché la loro passione è sempre stata anche la tua, alla luce negli occhi di tanti appassionati piacentini finalmente proiettati nel Gran Giorno aspettato da tanto. L'eroe di questa devozione è stato fedele a tanta attesa soprattutto in una cosa: nel disattenderla, nel senso buono. Nessuna prevedibilità, nessun "i grandi classici di Wayne Shorter", nessuna compiacenza, nessun grattare la pancia al pubblico. Tolta l'acclamata fanfara di soprano di Over Shadow Hill Way e l'acclamatissimo bis con Joy rider, c'era ben poco di riconoscibile (fin dalla brada improvvisazione collettiva iniziale, un misto di tribalismo voodoo e mercuriale intellettualità) in questo concerto che, più che ripercorrere il passato, ha regalato anticipazioni dei dischi a venire. Raramente, nella vita, ho sentito dal vivo dei jazzisti suonare così bene: una gloriosa star del contrabbasso come il terreno John Patitucci, il liquido e aspramente dissonante pianismo del coboldo Danilo Perez, l'aerea, selvaggia energia del devastante batterista Brian Blade (da non credere ai propri occhi e alle proprie orecchie!). Completava l'alchimia il fuoco del grande capo Shorter, molto cambiato rispetto alla guascona piacevolezza dei suoi anni giovanili: i lutti familiari che hanno piagato la sua vita sembrano aver lasciato il segno, oltre che nel suo sguardo e nell'inquietudine dei suoi tic, in un eloquio strumentale che ha guadagnato un cupo, impressionante carisma. Il presidente del Piacenza Jazz Club Gianni Azzali, in apertura, oltre a ricordare le meraviglie che ci attenderanno nel Piacenza Jazz Fest 2005 di cui questa esibizione è stata abbagliante anteprima, ha voluto dedicare il concerto di Shorter a Chicco Bettinardi, un grande amico di tutti i jazzofili piacentini morto, troppo presto, quest'anno. E noi, l'altra sera, abbiamo sentito davvero la presenza di Chicco, che in Paradiso di queste cose ne ascolterà tutti i giorni, ma si è divertito anche lui.

Alfredo Tenni

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