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Domenica 8 Marzo 2009 - Libertà

Sosa tra rumba, mambo e ritmi africani

Teatro gremito per il concerto del grande pianista cubano con la sua band, in vetrina l'album "Afreecanos"
Da "Elegue" a "Muevete", al President l'artista si scatena: pubblico entusiasta

piacenza - Musica inventata da nipoti di schiavi strappati all'Africa, il jazz è sempre stato attraversato da una corrente di nostalgia per questa Madre perduta. Prima venne l'Africa hollywoodiana del Duke Ellington di Chocolate shake; poi vennero l'Orgoglio Nero, il misticismo dell "Africa" incisa da John Coltrane nel 1961, le ancestrali memorie che affioravano nella Freedom now suite di Sonny Rollins, nelle spiritate esplosioni del free jazz, nel pellegrinaggio di Ornette Coleman tra i virtuosi marocchini di Joujouka. Ma il più "africanista" dei grandi (in quegli anni '70 in cui l'infatuazione africana dei neri d'America toccava il culmine e Muhammad Ali incrociava epicamente i guantoni con Foreman nello Zaire del tiranno Mobutu) fu il Miles Davis elettrico: copertine in stile, dediche a svariati "movimenti di liberazione" (un brano si intitolava Zimbabwe quando Mugabe, prima degli omicidi e delle aragoste per compleanno, godeva di buona stampa nel mondo) e un magico, stordente voodoo di ritmi e poliritmi. Nasceva, intanto, un autentico "jazz africano", a opera di grandi musicisti del Continente Nero desiderosi di emulare i cugini americani.
Nel jazz di oggi, però, il più noto fautore del "ritorno all'Africa", è - paradossi della Storia e della Geografia - un pianista nato e cresciuto a Cuba. Parliamo di Omar Sosa, che l'altra sera, in un President gremito, ha infiammato il Piacenza Jazz Fest (organizzato dal Piacenza Jazz Club con il sostegno di Comune e Fondazione di Piacenza e Vigevano) con un concerto che gli somigliava: esuberante, colorato, sexy, ballerino.
Nel sincretismo del "mondo Sosa", l'Africa ha un posto d'onore e Afreecanos si intitola il suo ultimo album. Ma l'Africa di Sosa è quella della "diaspora nera", è la lingua franca dei migranti e dei figli di schiavi, è la melanina che "abbronza" un pianeta sempre più meticcio. Un'"Africa interiore" la cui musica è il son di Cuba, il rap di Washington D.C. (il Nostro è un fan degli Opus Akoben), lo slam della banlieue parigina. E, naturalmente, il jazz.
Un jazz tutto da vedere, oltre che da ascoltare: vestito di un "pigiamone" rosso cardinale, Sosa salta sullo sgabello mentre si scatena sulla tastiera, si lancia in assoli di pianoforte con la sola mano destra mentre la sinistra indugia su un arsenale di ciànferi elettronici (o sul piano elettrico lì accanto), va avanti e indietro sul palco a passo di danza. Lo accompagnano validamente, in un'orgia di tempi spesso insidiosi, il monumentale basso a cinque corde del mozambicano Childo Tomas, l'allegrissima batteria del cubano Julio Barreto e il sax alto dell'altro cubano Leandro Saint Hill, ora rapinosamente melodico, ora impegnato in "obbligati" che contribuiscono alla propulsione ritmica dell'insieme.
L'inizio con Elegue, per la verità, è ingannevole: un sognante preludio di pianoforte, la sezione ritmica che entra in punta di piedi, la dolcezza del flauto di Saint Hill. Ma queste atmosfere ovattate (che torneranno nel finale) cedono presto al flusso sonoro magmatico e muscolare di Metisse, Across Africa (Arrival), Ollù. Sempre memore dell'amato Monk, il pianismo di Sosa strizza l'occhio (a volte clamorosamente, come nel bis Muevete con i cori del pubblico) ai ritmi contagiosi della rumba e del mambo.
La cosa è meno rassicurante di quanto potrebbe sembrare, perché questi ritmi allegri e ballerini hanno origine nella Santeria, la religione popolare cubana (mescolanza di culto cattolico e magie yoruba) di cui Omar Sosa è un "iniziato": l'ispirazione originaria della rumba e del mambo è il rullo dei tamburi che accompagna la trance dei santeros.
A dire il vero, l'afro-cuban-jazz-rock del Sosa sentito al President faceva pensare spesso a certi dischi di 30, 40 anni fa (i Weather Report, i Lifetime di Tony Williams, persino i momenti più jazz dei nostri Area): musica elettrica ed elettrizzante, in bilico tra retaggi "etnici" e modernità urbana. Quella musica, in mano agli epigoni, spesso ha fatto una brutta fine.
Ma, rispetto agli esotismi di plastica di tanti brutti dischi di fusion e world music, Omar Sosa ha il vero X-Factor che fa la differenza: si chiama anima.

Alfredo Tenni

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