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Mercoledì 4 Febbraio 2009 - Libertà

Rea: «Così rendo omaggio a De André»

Parla il grande pianista, stasera in Fondazione per l'"anteprima" del Jazz Fest

Un pianoforte jazz per De André: stasera alle 21.15 l'Auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano di via Sant'Eufemia 12 ospiterà il celebre pianista Danilo Rea che, in perfetta solitudine, sarà protagonista di un concerto a ingresso libero intitolato Omaggio a Fabrizio De Andrè, basato sulle canzoni dell'indimenticabile cantautore genovese di cui ricorre in questi giorni il decennale della scomparsa.
Il concerto di Rea (uno dei grandi protagonisti del jazz italiano, dallo storico Trio di Roma ai Lingomania, dai Doctor 3 ai duetti con mostri sacri come Peter Erskine e Marc Johnson, fino ai sempre più frequenti recital solistici) è organizzato dal Piacenza Jazz Club presieduto da Gianni Azzali, che proprio in questi giorni ha terminato di approntare il calendario del Piacenza jazz Fest, il festival di indiscusso prestigio la cui sesta edizione (che viene presentata proprio oggi) è in programma da sabato 28 febbraio a sabato 4 aprile.
Abbiamo intervistato Rea, protagonista dell'attesa "anteprima" di stasera, che ha parlato a Libertà del suo tributo in jazz a un maestro della canzone d'autore.
Come nasce questo suo «Omaggio a Fabrizio De André»?
«Nasce dal mio amore profondo per le sue canzoni, che hanno accompagnato la mia vita: purtroppo, non ho mai suonato con lui, anche se ho inciso con Mina una fortunatissima versione di La canzone di Marinella. In questo concerto-tributo rileggo alcuni dei classici di De André, da Marinella a Canzone dell'amore perduto, con un approccio jazz. Un approccio che non è sempre "canonicamente" jazz: il fatto che si tratti di un concerto per solo pianoforte, senza accompagnatori, mi consente la massima libertà».
Perché certe canzoni si prestano bene all'improvvisazione jazz e altre, magari altrettanto belle, no? Che cos'è che fa di una canzone un potenziale standard jazz?
«La struttura strofica, armonica, ritmica ha la sua importanza. E' per questo che i classici di George Gershwin e di Cole Porter si prestano così bene a essere "manipolati" dai jazzisti: in Italia, accade ai brani di Luigi Tenco, o a certi successi di Gino Paoli, come Senza fine. Le canzoni di De André, per lo più basate su una tradizionale struttura "a ballata", non sono altrettanto "jazzistiche", anche se esistono eccezioni: penso a Inverno, che è uno dei pezzi forti del mio concerto, o la stessa Marinella, che ha armonie affini a quelle di una canzone molto "frequentata" dai jazzisti come Besame mucho. Ma, alla fin fine, non penso che la struttura della canzone sia la cosa fondamentale. Io credo fortemente che si possa suonare jazz a partire da qualsiasi spunto melodico. Perciò formulerei una legge semplicissima: le canzoni che si prestano meglio al jazz sono quelle che danno più emozioni al jazzista che le suona. Punto».
Domanda inevitabile, allora: qual è la canzone che ama di più?
«Se dovessi indicare la più bella di tutti i tempi, non saprei quale dire, ma sarebbe probabilmente una di Gershwin. Nell'ultimo mezzo secolo, direi The long and winding road dei Beatles. Per restare a De André, mi è molto difficile scegliere. Ma forse metto Via del Campo, Marinella e Canzone dell'amore perduto un gradino sopra le altre».
Lei non è nuovo al repertorio di celebri nomi della canzone italiana: oltre che con Mina, ha collaborato con Paoli, Mannoia, Cocciante, Baglioni.
«Vorrei aggiungere un altro nome: quello di Domenico Modugno, con cui ho fatto in tempo a lavorare. Tengo molto a ricordarlo, perché il mio imprinting musicale, quando ero piccolo, è avvenuto proprio con le canzoni di Modugno. O almeno così sostiene mia madre… Tornando al nostro discorso, devo dire che le mie collaborazioni pop mi hanno procurato per anni l'ostracismo della critica jazz più arcigna, che mi trattava da "venduto". Ora, però, questo modo di vedere le cose è fortunatamente tramontato. E io non ho problemi a dire di avere imparato molto lavorando con interpreti di musica cosiddetta "leggera"».
Che cosa ha imparato da loro?
«L'arte dell'accompagnamento, che è una scuola di discrezione, di sintesi. Impari a essere efficace anche senza assoli: un buon antidoto contro il "complesso da primadonna" che è una tentazione fatale per ogni jazzista».

ALFREDO TENNI

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