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Venerdì 6 Febbraio 2009 - Libertà

piacenza jazz fest 2009 Incantevole omaggio al cantautore genovese in un gremito auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano

La grazia e lo stile di Danilo Rea hanno richiamato, l'altra sera per l'anteprima del Piacenza Jazz Fest 2009, un foltissimo pubblico all'auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano. Tanto che, pur avendo aggiunto sedie in gran numero, gli organizzatori a un certo punto hanno dovuto chiudere la porta di ingresso agli spettatori ritardatari.
Valeva la pena accorrere alla performance di Rea, pianista d'eccellenza nel panorama internazionale, ormai divenuto anche un "vecchio" amico del Piacenza Jazz Club? Sì, eccome.
Dopo aver fatto gli onori di casa, ripercorrendo brevemente tutti gli appuntamenti della nuova edizione della kermesse, Gianni Azzali, direttore artistico e presidente del Piacenza Jazz Club, ha presentato Danilo Rea ed il suo progetto: un omaggio strumentale a Fabrizio De André in cui, pur senza parole, a parlare è stata la musica straordinaria delle ballate più note del cantautore genovese, scomparso 10 anni fa.
Premessa. Ultimamente mi è capitato di pensare, come giornalista ma anche come semplice appassionata di musica, che certi tributi a De André fossero davvero troppi. Taluni molto forzati, altri somiglianti a tristi imitazioni, poco genuine e quasi irriverenti. Senza nulla togliere all'intenzione buona di alcuni spettacoli, risulta tuttavia difficile non provare a volte un certo "fastidio", soprattutto nel ripensare alla figura artistica, e più di tutto umana, di Faber. Un cantautore che parlava attraverso la sua stessa arte, senza autocelebrazioni e senza "svendere" la propria immagine come invece capita ad alcuni suoi colleghi, tuttora viventi, ormai più sensibili al timore della dimenticanza che non al valore della propria arte nell'attualità.
Partendo da questa personalissima opinione, accompagnata anche da un concetto a me caro che rimanda al buon gusto, bisogna ammettere che, l'altra sera, Danilo Rea ha stupito non solo per la sua bravura - di cui già tutti eravamo a conoscenza - ma per l'originalità e l'unicità del suo omaggio. Un tributo garbato e sentito che, lungi dal voler ricalcare strumentalmente ogni fraseggio melodico con assoluta fedeltà, semmai si è levato sulle ali della fantasia, lungo un sincero e palpitante moto del cuore che a Fabrizio sarebbe certamente piaciuto.
Il tributo in jazz di Rea è stato un inno alla libertà d'espressione. Ecco allora che Il pescatore diventava una conturbante scia di ottave basse, con ritmica cavalcante e momenti più soavi: un rimando al moto del mare, metafora del destino e della vita umana. Ma senza fronzoli né cupezza, a colorare il tutto c'erano invece armonie particolarmente sensuali.
Fare un certo tipo di arrangiamenti, arte di cui Rea è senz'altro maestro, implica dapprima un pensiero della mente. Preciso eppure estemporaneo, com'è tipico della musica jazz. Per questo, essere realmente un buon jazzista è sempre un po' più difficile che essere un buon musicista pop, rock o blues. Ci vuole filosofia. E, poi, una tecnica ferrata ma capace di restare in ombra rispetto all'espressività.
Eccellente riprova sono state le sorprendenti divagazioni che Rea ha percorso, in modo del tutto appropriato, facendo camminare a braccetto La canzone di Marinella e Besame mucho, Bocca di rosa e Bewitched, la Canzone dell'amore perduto e Over the rainbow. E poi ancora The way you wear your hat e Somewhere, in cui i classici americani fanno l'amore con la canzone d'autore di De André appassionatamente, senza mai toglierle respiro. Le cedono spazio, la rincorrono nei glissati, la svestono nei rivolti e la accarezzano nella dolce ripresa del Tema principale. Come se non bastasse, nel bis a grande richiesta arriva un barlume di Moon river che ci ricorda in un battibaleno perché, in una notte di febbraio, il suono di un pianoforte fa battere improvvisamente il cuore. Chapeau.

ELEONORA BAGAROTTI

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