Venerdì 12 Dicembre 2008 - Libertà
«Amo i racconti brevi»
Lo scrittore Ugo Cornia stasera in Fondazione
Piacenza - "Tanti anni fa, quando ancora abitava a Roma, un bel giorno mia zia Bruna mise a cuocere una gran pentola di carne per fare un brodo per sé e per la sua famiglia…". Che famiglia, quella di Ugo Cornia. La racconta nella sua ultima fatica letteraria, Le storie di mia zia (e di altri parenti) edita da Feltrinelli e protagonista di un incontro in programma stasera alle 21 all'auditorium della Fondazione di via Sant'Eufemia. La presentazione rientra nell'ambito della rassegna Scrittori italiani contemporanei organizzata dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano che ha visto alternarsi narratori come Marco Lodoli, Tommaso Pincio e Giorgio Ruffolo: stavolta tocca dunque a Cornia, esponente di quella "scuola" che da Celati porta al Learco Pignagnoli di Daniele Benati fino alla Gilera di Paolo Nori e al piacentino Paolo Colagrande.
Un racconto di famiglia, si diceva, filtrato e rivisto dagli occhi disincantati e vivaci dell'autore: tra le pagine rivivono vicende di strani personaggi, imbroglioni ed inventori, amici e parenti bizzarri e stralunati. Lo stile è quello che gli affezionati di Cornia & co. conoscono bene: sincero e quasi lapidario, breve e leggero nella sua sagacità.
«Mi piacciono i racconti brevi - spiega l'autore - anche se mi rendo conto che oggi sia una scelta infrequente: c'è Benati o Thomas Bernard, nella tradizione c'è il Novellino, ma ora non è una scelta così diffusa».
Come è nato il libro?
«Avevo già scritto qualche raccontino dodici o tredici anni fa. Erano piccole narrazioni, avventurine come quella del mio trisnonno o del brodo di mia zia: favolette condensate che in seguito si sono arricchite».
Il risultato è una sorta di epopea da ridere, una narrazione in cui il mito si condisce con la salsa padana e la saga di una famiglia narra la vita umana e la sua approssimazione.
«Sono storie che nascono da vicende molto ridicole oppure decisamente tragiche: sono quelle raccontate da nove fratelli che allora stavano sugli Appennini. Sa, la montagna di allora non era mica come adesso: c'era un po' di vita civile, ora si sta spopolando, tra poco magari sarà abitata solo da lupi, orsi e cinghiali. Allora c'erano intere famiglie con i loro racconti che ancora adesso si tramandano; e i parenti che li narrano sembrano anche un po' deficienti, proprio perché sono lì vicino ed è difficile considerarli in chiave mitizzata».
In tutto sono cento storie.
«Sì, ne ho scritte cento perché farne magari centosette poteva sembrare stupido: invece così il libro acquista una forma compiuta».
E si racconta la realtà, anche se in forma strampalata.
«Beh, la vita è normale, io scrivo cose normali. Se uno dovesse descrivere la realtà, probabilmente continuerebbe a scrivere di incidenti stradali e non di assassini e delitti. E poi non si vede mai una cosa mentre la si fa: io mi divertivo a scrivere così».
Betty Paraboschi