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Sabato 21 Giugno 2008 - Libertà

Gino Strada: il sostegno di Piacenza è decisivo

Il fondatore di Emergency: i volontari sono molto attivi

Gino Strada l'uomo delle cause impossibili, che neppure i taliban dell'Afghanistan riuscirono a fermare, ha sfondato la barriera della guerra endemica che colpisce i Paesi dell'Africa, ed ha riunito intorno ad un tavolo i delegati di nazioni belligeranti per parlare di sanità.
Sanità gratuita soprattutto per i più negletti: la sua specialità. Nel nome di tale principio ha fondato Emergency, ha raccolto intorno a sé migliaia di volontari grazie ai quali realizza e gestisce presidi ospedalieri, ultima eccellenza, in ordine di tempo, il Centro di cardiochirurgia Salam, nei pressi di Khartoum, in Sudan, Paese travagliato da una annosa guerriglia interna.
Il 10 ottobre 2006 fu protagonista di un memorabile incontro con i piacentini, in un affollatissimo Politeama, dove illustrò l'operato di Emergency e l'allora nascente centro sudanese, e fu feeling tra Gino e Piacenza. Per lunedì 23 giugno, a palazzo Farnese, la città ha organizzato un grande appuntamento con l'adesione delle eccellenze dell'enogastronomia e della ristorazione. Obiettivo è la raccolta di fondi a sostegno delle attività di Emergency e del centro Salam di cardiochirurgia che già archivia il primo bilancio annuale.
Com'è questo bilancio, Gino?
«È un bilancio molto positivo. In poco più di un anno di lavoro, dal 19 aprile 2007 al 31 maggio scorso, il Centro Salam ha registrato 588 operazioni chirurgiche, 87 procedure di cardiologia interventistica, 8.352 visite ambulatoriali, 4.274 visite cardiologiche specialistiche.Come previsto, il Centro Salam avrà ricadute positive anche sulla formazione dei medici locali. Su richiesta del ministero della Salute sudanese, stiamo lavorando a un programma di specializzazione quadriennale in cardiochirurgia, cardioanestesia, cardiologia, infermieristica e pediatria che dovrebbe prendere avvio da gennaio 2009. E poi il nostro centro ha gettato i semi di una piccola rivoluzione culturale. Il diritto alla salute deve avere lo stesso contenuto per tutti i malati: non Tac e risonanza magnetica per i cittadini del primo mondo e paracetamolo e aspirina - quando va bene - per quelli del terzo».
Totalmente gratuito per chiunque?
«Sì, certo. La salute è un diritto, non può essere altrimenti.
Nei paesi poveri, invece, curare un parente significa spesso mettere a rischio la sopravvivenza dell'intera famiglia, che è costretta a indebitarsi al di là delle proprie possibilità per far fronte alle spese mediche. In breve tempo, questo potrebbe diventare un problema anche del primo mondo, dove la salute sta diventando un business».
Qual è il quadro umano e politico nel quale opera l'ospedale di Khartum?
«Con le autorità locali siamo riusciti a instaurare un dialogo aperto, e soprattutto fattivo: il governatorato di Khartoum ha donato a Emergency il terreno sul quale sorge l'ospedale; il governo sudanese è impegnato a coprire le spese relative ad alcune voci della gestione, tra le quali la retribuzione del personale nazionale. Khartoum è una città contraddittoria. Da un lato rincorre la modernità di Dubai, con i suoi grattacieli, una classe dirigente colta e intraprendente, donne inserite in posizioni lavorative di rilievo, dall'altro i due terzi degli abitanti sono profughi che vivono accampati da anni in condizioni al limite dell'umano».
Che tipo di difficoltà incontrate?
«I nostri pazienti arrivano in ospedale in condizioni estremamente compromesse, nelle quali ai problemi cardiaci si sommano problemi di salute più generali come la malnutrizione. A monte abbiamo difficoltà nel reclutamento del personale. Quella cardiochirurgica è un'équipe complessa, che richiede molte professionalità diverse in compresenza: cardiochirurghi, perfusionisti, cardioanestesisti. Un'altra difficoltà riguarda i finanziamenti: il governo sudanese contribuisce al mantenimento del centro, ma non abbiamo altri grandi "donors". E la cardiochirurgia è una specialità costosa».
In questo primo anno sono stati accolti anche pazienti dei nove paesi confinanti?
«Finora lo staff del Centro Salam ha operato pazienti provenienti da 11 paesi diversi, non solo confinanti. Abbiamo ricevuto pazienti dal Ruanda e dalla Sierra Leone; recentemente ci hanno chiesto anche di operare pazienti iracheni. Il nostro Centro è l'unico ad offrire assistenza chirurgica in una vastissima zona dell'Africa dove non esistono altre possibilità di essere curati da una équipe altamente specializzata in maniera gratuita».
Se la popolazione è tanto povera, come fa a raggiungere l'ospedale, in che modo ne viene a conoscenza?
«Esiste un passaparola tra pazienti, come in tutti i paesi in cui siamo presenti, ma esistono anche rapporti di collaborazione tessuti da Emergency con realtà mediche locali che ci segnalano pazienti che hanno bisogno di essere operati. Team di cardiologi di Emergency effettuano periodicamente missioni di screening in alcuni dei paesi confinanti con il Sudan: i pazienti che hanno effettivamente bisogno di un intervento chirurgico vengono trasferiti in aereo presso il nostro Centro. Naturalmente tutto a spese di Emergency. Questo succede in attesa di realizzare quella che sarà una vera e propria rete regionale di cliniche locali che - oltre all'assistenza pediatrica - si occuperanno di effettuare gli screening dei pazienti da dirigere al Centro Salam e del follow up post operatorio. La prima clinica è in costruzione a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, e prevediamo la fine dei lavori per ottobre».
Il vostro operato com'è considerato dalle classi politiche del Sudan e dei Paesi confinanti?
«È molto apprezzato: il Centro Salam è diventato un modello condiviso per una sanità di eccellenza e gratuita».
Come un ambasciatore di pace, lei ha fatto incontrare delegati di paesi in guerra: com'è andata?
«Il 13 e 14 maggio abbiamo riunito sull'isola di San Servolo, in una struttura messa a disposizione dalla Provincia di Venezia, i ministri della Sanità e delegazioni ufficiali di Egitto, Eritrea, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Ruanda, Sierra Leone, Sudan e Uganda. Con oltre 500 interventi a cuore aperto nel primo anno di attività, il Centro Salam ha dimostrato che anche in Africa è possibile praticare una medicina d'eccellenza. Proprio a partire da questi risultati, abbiamo discusso dei principi e delle strategie d'intervento più adatti a garantire ai cittadini africani il diritto a una sanità gratuita e di alto livello. Emergency ha proposto di basare le politiche sanitarie e i progetti umanitari in campo sanitario su tre principi fondamentali: uguaglianza, qualità e responsabilità sociale. Una proposta pienamente condivisa dalle delegazioni africane che rivendicano una medicina efficace, di qualità e accessibile a tutti. Ci siamo lasciati con l'impegno a lavorare insieme a un documento comune che contenga le priorità e le modalità di intervento per la sanità in Africa».
Quanto le manca l'Afghanistan, è possibile ipotizzare il rientro della sua organizzazione?
«Emergency è ritornata in Afghanistan lo scorso giugno, due mesi dopo l'incarcerazione illegittima di Ramatullah Hanefi, anche grazie alla forte pressione della popolazione locale. Gli ospedali e i centri sanitari di Emergency sono gli unici ad offrire assistenza di qualità e gratuita in tutto il paese, è naturale che chiedessero il nostro ritorno. Per quanto mi riguarda, ritornerò a Kabul a luglio, la prima volta dopo la vicenda Hanefi: all'epoca dell'incarcerazione di Ramatullah avevo temuto che non vi sarei più tornato».
Lei, che è paladino delle cause più difficili, come vede la vicenda dei Rom in Italia ?
«Si sta costruendo un falso problema per coprire un'ondata di razzismo crescente che potrebbe avere un esito spaventoso».
Emergency vive di donazioni, che cosa le permettono di realizzare?
«Sette ospedali, quattro centri di riabilitazione, un centro di maternità, un centro di cardiochirurgia, cinquantacinque tra posti di primo soccorso e centri sanitari e altri progetti in tredici paesi. Soprattutto ci hanno permesso di curare 2.750.000 persone, una ogni tre minuti. Considerando l'insieme dei fondi raccolti in quattordici anni di attività, il 94% è stato impiegato direttamente nei progetti, solo il 6% è stato impiegato per i costi amministrativi o di mantenimento della struttura».
Progetti per l'immediato?
«Un ospedale ostetrico-ginecologico in costruzione in Nicaragua e il centro pediatrico di cui dicevo prima nella Repubblica Centrafricana».
I volontari piacentini come sono, quanto pesa il loro contributo?
«A Piacenza c'è un gruppo molto attivo, con Emergency da molti anni. Il gruppo ha "adottato" il Centro pediatrico inaugurato due anni fa nel campo profughi di Mayo, alla periferia di Khartoum, dove vengono curati 50 bambini al giorno per le malattie della povertà: infezioni alle vie respiratorie, infezioni gastrointestinali, malaria».
Come ricorda l'incontro con i piacentini nell'ottobre 2006?
«Quella serata ha raccolto molte nuove energie intorno ai volontari allora operativi. Sin dalla sua fondazione, Emergency ha cercato occasioni di incontro. Siamo impegnati nella promozione di valori di pace e di solidarietà proprio perché conosciamo gli effetti della guerra: il nostro è un lavoro di cura, ma anche di "prevenzione"».

MARIA VITTORIA GAZZOLA

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