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Lunedì 28 Gennaio 2008 - Libertà

«Meglio bamboccioni che barboni»

Intervista al sociologo che domani sera sarà ospite a Piacenza di "Testimoni del tempo"
De Masi: Italia e Usa, due diversi modelli di vita

Una società in trasformazione, che vede emergere nuovi valori e richiede scelte adeguate all'effettiva portata delle trasformazioni in corso, abbandonando gli stereotipi che non aiutano a capire le dinamiche del modello socio-economico postindustriale con il quale si interpreta il nostro presente. Per il ciclo di incontri Testimoni del tempo, domani alle 21 all'auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano, in via S.Eufemia, 12, a parlare di "Vecchi, giovani e "bamboccioni"" interverrà il saggista Domenico De Masi, docente di sociologia del lavoro all'università "La Sapienza" di Roma e presidente della Sit, società italiana per il telelavoro. Sul perché in Italia i giovani tendano a restare in famiglia più a lungo che altrove si sono levate molte voci.
Professor De Masi, qual è il suo punto di vista sulla questione?
«Tutto il mondo si smuove sull'idea che l'Italia sia il Paese dei bamboccioni. Ora, se si guardano i dati degli Stati Uniti, ci si rende conto che effettivamente i giovani vanno fuori casa molto prima che da noi. Però nessuno si chiede dove vanno. In America ci sono sette milioni e mezzo di barboni, cinque milioni dei quali hanno meno di 35 anni. Una cifra immensa, se si pensa che tutti i barboni italiani sono 250mila. Quindi si tratta di mettere a confronto due modelli di vita, ognuno con i suoi pro e i suoi contro: quello americano che preferisce che i giovani vadano a finire sotto i ponti, pur di renderli autonomi; quello italiano che preferisce tutto sommato tenerli in casa se non hanno alternativa. Sono inoltre molti interessanti i dati, perché sfatano un altro stereotipo. Si scopre che restano a casa soprattutto i giovani del nord e che hanno un lavoro. I giovani del sud emigrano di più e, anche quando sono disoccupati, fanno di tutto per stare fuori di casa».
Tra le principali conseguenze dell'attuale modello post-industriale, lei ha segnalato l'emergere di nuovi valori. Quali?
«L'intellettualizzazione (apprezziamo le cose che si fanno con la testa più che quelle che si fanno con le mani, sia nel tempo libero che nel tempo di lavoro); la creatività; l'emotività (che in qualche modo sostituisce la razionalità, propria della società industriale); la soggettività (al posto della visione collettiva della vita); l'estetica (che ha importanza almeno quanto la pratica); la femminilizzazione (conseguenza della maggior importanza acquisita dall'estetica, dalla soggettività e dall'emotività, di cui la donna è ricca, mentre noi maschi per 200 anni abbiamo ritenuto che questi aspetti fossero secondari); la destrutturazione del tempo e dello spazio (sempre più le cose si possono fare dovunque, in qualunque momento); la qualità della vita».
Tra le caratteristiche del modello post-industriale, il prevalere della virtualità sulla tangibilità e della globalizzazione sull'identità sono tendenze tuttora inarrestabili?
«Sì, perché le tecnologie giocano a favore».
Un altro elemento, piuttosto sconfortante, da lei messo in luce riguarda "la mercificazione che si estende dai beni materiali ai beni immateriali, ai rapporti, alla cultura".
«I rapporti emotivi che si avevano tra genitori anziani e figli o tra genitori adulti e bambini sono ormai tutti mercificati, svolti dalle badanti. Basterebbe questo. Non si bada ai propri genitori, ma si paga qualcuno che lo faccia. E' un fatto nuovo, non c'era mai stato prima».
Anche la cultura ridotta a merce ritiene sia qualcosa di inevitabile?
«Tutta la cultura viene acquistata: sotto forma di un giornale, un libro, un biglietto di teatro o di cinema. Rispetto a quando la cultura si riceveva dai genitori, dalla famiglia, dal vicinato, oggi è tutta un'altra cosa. Consideriamo l'estendersi delle scuole private. In America se si vuole cultura, si devono pagare università carissime. In Italia, poiché non ci sono buone università, si va all'estero. L'unica inversione di tendenza che vedo è data da internet: consente di divulgare musica, ecc. a basso costo o addirittura gratuitamente».
Un futuro che presenta, accanto a fattori indubbiamente positivi, scenari alquanto inquietanti.
«La società post-industriale non è automaticamente né più buona, né più bella, né più ricca di quella precedente. Dipende da come viene pianificata dagli esseri umani che la vivono. Possiamo confrontare tre città. Milano ha capito subito la necessità di diversificarsi, di ridurre la presenza delle fabbriche, di aumentare la proposta di fiere, come il Salone del mobile, le iniziative sulla moda, ecc. L'ha fatto pure Torino (per esempio con la Fiera del Libro), però con molto ritardo rispetto a Milano. Detroit non l'ha fatto per nulla e infatti è in piena crisi, nonostante abbia tre grandi case automobilistiche: Chrysler, General Motors e Ford. Da due milioni di abitanti è scesa a 800mila. Non ha saputo gestire il passaggio da industriale a post-industriale».

ANNA ANSELMI

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