Domenica 2 Gennaio 2005 - Libertà
Applaudita anteprima dell'opera di Verdi
Municipale. Oggi la prima, mercoledì e sabato per gli abbonati dei turni A e B. Traviata, tra fasti e intimismo trionfa Zeffirelli. Convincenti Secco, Meoni, il coro e la Toscanini. Vassileva in crescendo
Dopo il Nabucco presidenziale, chi altri se non l'immancabile, l'insostituibile, l'immarcescebile Traviata poteva proporsi al Municipale? E se al "Va, pensiero" compete di diritto la qualifica di vice-inno nazionale, il brindisi "Libiam nei lieti calici" è assurto a simbolo festaiolo e godereccio, a obbligata sigla conclusiva di maratone canore di dubbio gusto. Ovviamente Traviata è ben altro che "Libiam". Lo si è scritto qui innumeri volte, non occorrerebbe ripeterlo. La graduale progressione psicologica di Violetta, dall'effimero "gioir" del folleggiare al supremo "sagrifizio" di vittima d'amore, si esprime nel trasmutare del carattere, della "tipologia" (orrore!) vocale. La tinta realistica vi s'imprime assoluta, onnicomprensiva. Il pervasivo ritmo di valzer concorre a ricreare l'ambiente del demi-monde. L'intimismo vissuto e sofferto in prima persona ne fa un'opera da camera, anzi una tragedia da salotto, insofferente di schemi cabalettistici (ma "Sempre libera"?) e invece propensa all'introspezione lirica di un declamato di specie nuovissima per come lo ricrea Verdi. Vi incombono in romantica simbiosi eros e thanatos, e Giuseppina Strepponi in Verdi vi è adombrata fra arte e vita, fra suggestione biografica e trasfigurazione estetica. Finalmente si può trarre un respiro di sollievo, di soddisfazione, di appagamento non illusorio. La regìa di Zeffirelli, già baciata meritatamente da innumeri riconoscimenti, resta il punto di forza, senza tema di smentita, dell'attuale produzione, in quanto frutto meditatissimo del gusto e della cultura di uno degli ultimi autentici registi d'opera, soprattutto compenetrato con conoscenza di causa nelle ragioni della musica, principio imprescindibile. Lungi dallo stravolgere cervelloticamente e spudoratamente, Zeffirelli si attiene a lettera e a spirito, in vista non di un'impossibile "verità", ma della probabilità della "verosimiglianza", eleggendo a idea di fondo, a idée fixe della sua concezione registica l'aleggiare di un senso di morte, thanatos appunto. Oltretutto, la partitura permane integra in (quasi) ogni sua nota. Se l'Aida di due anni fa prestò il fianco a critiche legittimate dalla soppressione delle danze dei "piccoli schiavi mori" e in particolare del basilare "ballabile" nella scena del trionfo (il teatrino di Busseto - si scrisse allora - non è il Municipale di Piacenza, opportuno e doveroso l'adattamento nel passare dall'uno all'altro), qui in Traviata tutto scorre liscio per filo e per segno quale Verdi lo concepì, ma non, per fortuna, come prima versione dell'opera, quella fischiata alla Fenice il 6 marzo 1853, bensì, per grazia di Dio, secondo la versione riveduta e corretta di nascosto dal sapiente demiurgo. Anche se in noi resta dura a morire, acuta e radicata l'allergìa a "visualizzare" le ouverture o, nel caso di Traviata, i preludi, con Zeffirelli l'operazione, altrove detestabile, acquisisce un senso, una sua necessaria funzione, complici il fasto, lo splendore, lo sfavillìo fantasioso di scene, costumi e balli. Mai, come nel caso specifico, benedette la sovrabbondanza e l'orpellatura. In buona forma il coro, diretto da Marco Faelli, e l'orchestra della Fondazione Toscanini ai cenni di Massimiliano Stefanelli, che ha retto l'insieme con seria consapevolezza ed esiti in complesso positivi, ma non al punto che questa "anteprima" non sembrasse una prova generale, date certe sfasature, imprecisioni, discordanze. Svetla Vassileva, giovane soprano in ascesa, non è parsa impari all'arduo compito. Se le è sostanzialmente estraneo il tremendo primo atto, se non le si confanno le folli colorature, se le converrebbe omettere il finale mi bemolle sopracuto che Verdi mai pensò di notare e che le esce sforzatissimo, dal secondo atto in poi ella assume e vive il ruolo in crescendo d'intensità e di partecipazione giustamente encomiabili. Stefano Secco recita e, ciò che più importa, canta con piglio e sicurezza, sfoggiando mezzi efficienti e gradevoli. Altrettanto valga per Giovanni Meoni, la cui nobile caratura vocale concorda con la composta pertinenza scenica. Ben figurano nelle parti minori i numerosi collaterali, fra cui la nostra Giovanna Beretta e il veterano Gastone Sarti. Se consentito, "darrovi un corollario ancor per giunta". Come porre parziale rimedio ai lievi malanni stagionali che imperversano a danno di delicatissime strutture musicali intimistiche quale appunto Traviata, anzitutto del suo sublime terzo atto, a iniziare dal vertiginoso preludio con il suo lacerante singhiozzo dei violini, quello che secondo Toscanini si sarebbe dovuto dirigere in ginocchio, oltretutto commemorativo oggi, più che della "signora delle camelie", dell'immane catastrofe nel sud-est asiatico? Tra le possibili soluzioni: 1) preventivamente invitare gli spettatori, oltre che a spegnere i "telefonini", a sfogare tossi, starnuti e simili, salvo imprevisti, negli intervalli o a soffocarli nei fazzoletti; 2) distribuire all'ingresso caramelline palliative (ma lo scartocciamento?); 3) limitare le produzioni di Traviata (e analogamente di Bohème, ecc.) alle "stagion dei fiori". Absit iniuria verbis ovvero senza offesa.
FRANCESCO BUSSI