Lunedì 7 Marzo 2005 - Libertà
De Vito, un feeling targato Mitchell
PIACENZA JAZZ FEST - La vocalist in Conservatorio con la sua band per un tributo alla cantautrice. Al fianco Rea e Pietropaoli, pathos e poesia dei versi
"In questi giorni impazziti, non possiamo fare a meno di chiederci quale sia il senso di restare qui a fare musica" ha confessato - riferendosi alla liberazione di Giuliana Sgrena e alla tragedia di Nicola Calipari - Gianni Azzali, presidente del Piacenza Jazz Club, presentando l'altra sera al folto pubblico riunito nella sala grande del Conservatorio Nicolini il concerto della chanteuse romana Maria Pia De Vito che costituiva il secondo appuntamento dell'edizione 2005 del Piacenza Jazz Fest, il festival organizzato dal Piacenza Jazz Club col sostegno di Comune, Provincia e Fondazione di Piacenza e Vigevano e con la collaborazione di Editoriale Libertà. L'esibizione di De Vito (alla testa di un trio che, oltre a lei, era formato da due jazzisti capitolini di altissima notorietà e prestigio: Danilo Rea al piano ed Enzo Pietropaoli al contrabbasso) era un tributo a Joni Mitchell, cantautrice somma del pianeta rock più raffinato e cosmopolita, capace di guadagnarsi non solo il reverente rispetto di jazzisti di ogni ordine e grado, ma anche l'imprimatur del nume Charles Mingus (attorno alla cui figura Mitchell costruì il classico album Mingus). Inattaccabile, come i suoi due partners, sul piano della tecnica e del feeling, De Vito si confronta con la grande Joni nel modo più sensibile e intelligente, "sceneggiando" le sue canzoni con pathos finemente teatrale, sottolineando la vera poesia dei versi invece di puntare sulla pura improvvisazione. Succede nella splendida apripista Harlem in Havana. Succede forse un po' meno nella mingusiana Goodbye, pork pie hat, correttissima ma impari al confronto con la versione di riferimento, mentre le emozioni tornano ad ardere nella resa vibrante di God must be a boogie man. Ma succede soprattutto nell'esemplare cesello di due gemme tratte da quel miracolo che fu l'album Blue: una QA case of you che si pianta nel cuore di chi ascolta e che non c'è verso di scacciare, e All I want. Arrivano poi, sempre ai medesimi, altissimi livelli, Both sides now, medley fra Big yellow taxi e My old man satura di "percussione vocale" e drogata dal contrappunto elettronico di un Jam Man, e quella Woodstock che la giovane Mitchell regalò a Crosby, Stills, Nash & Young (due dei quali, vedi caso, di passaggio la sera stessa al Fillmore di Cortemaggiore). E' il momento dei bis di rito: la gag solo apparentemente ridanciana di Pietropaoli, che accenna al contrabbasso il tema di Jingle bells, introduce l'atmosfera mestamente natalizia del primo verso di una meravigliosa River, che strappa applausi a cascata. Con Cherokee Louise finisce un concerto di grande gusto, capace di emozioni profonde e di bellezza vera. Peccato solo non aver potuto sentire qualche canzone tratta dall'album-capolavoro Hejira, come Amelia (che Maria Pia ha in repertorio, ma non tira fuori tutte le sere) o Furry sings the blues. Ma si sa come siamo noi appassionati: quando un bravo artista ci porge un dito, vorremmo afferrargli non la mano, ma tutto il braccio.
Alfredo Tenni