Sabato 13 Aprile 2002 - Libertà
Accardo, star col violino al settimo cielo
Municipale - Pubblico foltissimo e bis: da Dvoràk a Mendelssohn, chiusa in bellezza la stagione concertistica. Solista e direttore dell'Orchestra Toscanini, un doppio trionfo
Per descrivere l'accoglienza che il (foltissimo) pubblico del Municipale ha riservato al concerto dell'Orchestra della Fondazione Toscanini con la "star" Salvatore Accardo nel duplice ruolo di direttore e violino solista, non è esagerato parlare di trionfo: applausi interminabili, con battimani ritmati per chiamare più volte alla ribalta un protagonista che in questa grande manifestazione di entusiasmo ha generosamente associato a sé l'orchestra tutta. Questo successo, figlio in egual misura dell'aura del Grande Nome e dell'effettiva bellezza della performance musicale, ha chiuso in gloria la stagione concertistica del Municipale, che si congeda dal suo pubblico con una serata bella quanto strana: un concerto che, presentando all'inizio l'esibizione (con doppio bis) di un solista famoso in tutto il mondo e facendo dell'Orchestra Toscanini l'unica protagonista nella seconda parte (senza bis), pareva aver invertito l'ordine delle proprie due metà. Tanto che viene voglia di raccontarlo partendo dalla fine, cioè dall'esecuzione della Sinfonia n.8 in Sol maggiore op. 88 di Antonin Dvoràk che ha occupato per intero la seconda parte. Si tratta di una composizione meno nota, nel repertorio del suo autore, della successiva, celeberrima Sinfonia dal Nuovo Mondo, ma di non minore bellezza: merito della freschezza dei tempi di danza e dei temi popolari boemi che ne tramano la scrittura, della vivida suggestione "narrativa" che l'attraversa, della brillantezza e dell'originalità dei colori orchestrali. Come direttore, Accardo migliora con gli anni. Senza bacchetta, com'è sua abitudine, sembra guidare gli strumentisti della Toscanini (quasi tutti giovani) con le espressioni del viso più ancora che col gesto delle mani, ottenendo dall'orchestra un'ampiezza di dinamica e una bellezza di suoni perfettamente all'altezza della situazione. Ma la parte più emozionante della serata, com'era scontato, è stata l'apertura, che ha visto Accardo imbracciare il suo prezioso violino Stradivari "Hart" del 1727 (già appartenuto al sommo Zino Francescatti) e dar vita a un'esibizione da ricordare, su cui gli appassionati piacentini certo mediteranno a lungo. La cavata possente, l'eccezionale morbidezza esibita nei passaggi fra un registro e l'altro, la pastosità di suono infusa fin nei sopracuti di cui il grande violinista faceva sfoggio abituale prima della nota infermità che anni fa lo colpì a una mano non sono state forse pienamente recuperate (e anche questa sarebbe materia opinabile). Ma la limpidezza, il nitore purissimo dei sopracuti, le emozionanti risonanze cavate dai registri più gravi, la sicurezza con cui il Nostro affronta i più impervi passaggi virtuosistici, l'equilibrio tra pathos e dinamismo tecnico restano con pochi confronti nel panorama internazionale. Questo, soprattutto, se Accardo si cimenta con una partitura che studia da una vita come l'inarrivabile Concerto per violino e orchestra in Mi minore - sintesi perfettissima fra il tradizionale impianto classico della forma-concerto e il nuovo, individualistico "protagonismo" che il Romanticismo aveva iniziato a chiedere al solista virtuoso - composto da Felix Mendelssohn al culmine della propria maturità artistica e di quella perizia "tecnica" nello scriver musica che forse nessun compositore, né prima né dopo di lui, riuscì mai a superare: una sapienza che in questo concerto è magicamente dissimulata in un perfetto, classico equilibrio di diatonismo e cromatismo, di melodie e sviluppi, di "facile" e difficile che stringe insieme tre movimenti in un unico, fluidissimo discorso musicale. Il direttore Accardo stacca tempi giustamente veloci e il violinista Accardo innerva le sue note di una luce cristallina (l'uno e l'altro memori, forse, di quell'"imprinting" che la storica incisione a 78 giri di Jascha Heifetz con Thomas Beecham direttore costituì per il bambino prodigio Salvatore Accardo mezzo secolo fa). Il sognante, sentimentale tema principale dell'Andante è ripulito da ogni incrostazione zuccherosa; i mirabolanti fuochi d'artificio del portentoso Allegro molto vivace finale fremono di nervosa vivacità; ma è soprattutto nell'Allegro molto appassionato iniziale che Accardo fa risplendere il suo talento, dal lirico tema d'avvio al salto mortale senza rete di quella cadenza che Mendelssohn, con un'innovazione senza precedenti - ma gravida di conseguenze - pone nel cuore del primo movimento anziché in coda a quest'ultimo, sottolineando genialmente l'aspetto statico, anziché dinamico, di quell'exploit di teatrale virtuosismo che una cadenza di concerto costituisce per sua natura. Rispetto a quel che era stato fino a quel momento, tutto cambia segno: l'esibizione si trasforma in lirica introversione, il pirotecnico sfarfallìo di note diventa un sublime "fermo immagine" dopo il quale la ripresa dei due orecchiabili, patetici temi introduttivi acquista un sapore ineffabilmente diverso da quello che avrebbe avuto altrimenti. Accardo è grande nel saper rendere questo pathos unico nel suo genere, così come è grande, di lì a poco, nei due monumenti della letteratura violinistica - diversissimi tra loro - che propone di lì a poco come bis: la famosissima Romanza in Fa maggiore per violino e orchestra di Beethoven, in cui la melodia pare sciogliersi in un mare di dolcezza, e soprattutto la Sarabanda di quella Partita n. 2 in Re minore per violino solo di Bach che costituisce senz'altro uno dei vertici di arte e di pensiero toccati dall'umanità nella sua storia.
Oliviero Marchesi