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Sabato 23 Novembre 2002 - La Voce Nuova di Piacenza

Fernanda Pivano ha uno di quei volti da bambola-matrioska

Fernanda Pivano ha uno di quei volti da bambola-matrioska del Teatro popolare del centro Cropa, ceco-slavo, di Praga e Budapest in particolare. Un volto tutto bel rotondo, pienotto, con occhi vivissimi e curiosi, la frangetta a tuttogiro sulla fronte. La sua immagine è questa, non genovese (nascita), non svizzera né torinese (studi), non americana - Usa (esperienza con gli scrittori della beat generation), non cubana (i lunghi soggiorni al fianco di Hemingway). Ma questo appunto iconografico non significa nulla, è un caso, una semplice osservazione sulla fisionomia. Il discorso cambia quando su questa sua faccia rotonda senza uno spigolo vedi risplendere un'espressione quieta, distesa, cordiale, spontaneamente amica, a volte estrosamente mossa dall'arguzia, dell'estro di un bel riso vivace e sonoro,da un brioso sarcasmo, da uno scatto di entusiasmo che la emoziona. Questa - dici - è la Pivano, la Nanda Nanda Nanda come la canta Jovanotti in una sua stornellata. Ed è un'espressione cangiante, che cambia con rapida facilità. dalla professionalità un po' seriosa e didattica quando risponde alle domande sempre culturalmente scolastiche dei giovani che studiano la storia della letteratura americana col ritornello quasi sempre fisso su Edgar Lee Master, Hemingway, Fitzgerald, Steinbeck, Faulkener, Caldwell, Dos Passos, John Fante o sui protagonisti della beat generation Kerouac, Gregory Corso, Sanders, Burroughs, Ferlinghetti e poi Miller, Torthon Wilder, Bukowski (strano, giovedì sera alla Fondazione nessuno le ha chiesto niente di Pavese suo professore, di Primo Levi suo compagno di liceo, che lei ha ricordato), alla giovialità e alla malizia divertita quando "entra nei panni" dei personaggi da lei conosciuti e frequentati, dalla accorata preoccupazione socio - filosofica al ghignetto ruspante e osè che le rompe il filo di voce piana e piuttosto bruna, non squillante.
La Pivano ha il dono di una esposizione di tipo narrativo sicché tutto quel che dice si snoda come un racconto che fila via chiaro e liscio anche quando si entra in dimensioni di alta cultura letteraria. L'incontro di giovedì sera coi piacentini è stato un mixage di preziosa comunicazione sulle vicende della letteratura Usa dopo il tramonto della leggendaria epoca beat e col sopraggiungere di nuovi - in genere giovanissimi - autori postmoderni che sembrano riandare alle radici alla tradizione primitiva, alla "vecchia America", di momenti da salotto mondano con curiose e pruriginose rivelazioni sulla vita anche intima e familiare di scrittori e uomini politici, di profonda, altissima convinzione morale sui valori di "umanità" vicina alla realtà faticata e quotidiana della gente lontana dall'accademia e dall'enfasi intellettuale, di assoluta fiducia nella molla primaria e fondamentale che deve guidare il governo del mondo e dei popoli e cioè la libertà.
Anarchica pacifista per sua definizione, Fernanda Pivano odia la guerra, il militarismo, la violenza, i mercanti di petrolio e di armi, ricorda con lieta nostalgia la sua bocciatura in italiano all'esame di maturità classica a Torino per un tema sulla retorica eroica che doveva salutare i soldati che tornavano dal fronte e che invece lei vide tornare a casa bei vivi e contenti con un fiore sulle bocche delle canne dei fucili. Non ama Bush e la sua voglia di fare l'imperatore del mondo, scherza su Clinton che è stato un gran Presidente anche se con qualche inciampo oral - porno (ma la schietta definizione di questo atto fa ridere di gusto le giovanissime ascoltatrici e un po' meno le più mature signore dell'intellettual - borghesia), spiega cosa speravano e volevano i viandanti poeti on the road sulla gran Panamericana New York - Los Angeles e cioè vivere in pace, liberi come falchi, poveri (alcuni avevano rinunciato ai miliardi di famiglia), anche sporchi e affamati, lontano da quelle nevrosi della moderna vita americana chiusa e arida nelle grandi città, dice con sorridente provocazione che devono essere i poeti, gli scrittori, i cantautori come Bob Dylan, Tom Waits e, in Italia, Ligabue, Jovanotti, Vasco Rossi e, il più grande di tutti, Fabrizio De André (che uniscono poesia e musica) a intuire i pericoli della guerra, dell'angoscia sociale, delle paure esistenziali e quindi a fermarli, cancellarli, annullarli, cambiarli in gioiosa e bella voglia di libera e pacifica convivenza. Perché? Perché i poeti e i cantautori di alta sensibilità hanno un'anima, i guerrafondai.
La panoramica della sua passione per la libertà e la vita in santa pace è totale, globale, mondo - nazionale. Spacca il muso a McCarty e al suo fascismo idiota e intollerante, al trauma della dittatura, a qualsiasi forma di violenza contro la libertà di vivere la propria vita. Ma la conquista finale deve essere la pace per tutti.
Scriverebbe mai articoli d'assalto come quelli di Oriana Fallaci? Nessuno glielo chiede ma io penso di no. Fernanda Pivano non è un'Oriana Fallaci. Le piace la scrittura non aulica, non perentoria, non clamorosa ma quella "bassa", non intellettualmente presuntuosa, semplice, perché sicuramente più vicina alla realtà. Le piccole cose della realtà?, certo, piccole ma vere, essenziali, meravigliose.
Si schiarisce la voce che s'ingrana un po', la prende una tossichiatina fragile ma fastidiosa, si scusa con una battuta che sa di vecchi tempi e di popolari marche di drogheria d'una volta. "Scusate - sorride - mi lucido tutti i giorni col Sidol ma non posso pulirmi la voce che è quella che è, abbiate un po' di pazienza, eh?". Gli applausi diffondono una simpatia generale. L'arguzia la ripara da ogni domanda difficile, non tanto letteraria, ma piuttosto di costume e di comportamento. "Ragazzi" supplica "non vorrete mica mandarmi in galera, eh?", ma in galera non ci va anche se parla bel chiaro e tondo sulla droga, sulle matricole dello spinello, sulle sbronze piene di rischi e trabocchetti.
Ma tant'è. Bukowski era sbronzo in permanenza, perdutamente e felicemente sbronzo e poi lasciava sgocciolare l'ultima sbronza e scriveva cose bellissime, Hemingway altrettanto e poi scriveva dei capolavori come "Il vecchio e il mare" e prendeva il Premio Nobel.
Sulla musica parlata o sulla parola in canto e musica si rifà alla verità cantata del melodramma ottocentesco. Musica e Poesia legano bene insieme, trovano significato, racconto, messaggio. Così il discorso si accentra su Bob Dylan (il più grande poeta degli Usa) e ancor più su Fabrizio De André (il grande poeta degli ultimi cento anni in Italia).
Qualche critico, in più occasioni, l'ha consigliata ad andarci piano con giudizi del genere(De André più grande di Montale, Ungaretti, Quasimodo Premio Nobel?) ma la Nanda Nanda Nanda a certi non ci bada molto, anzi li snobba volentieri, li contraddice e non li accetta.
Per De André (ma lo rievoca sempre come Fabrizio) ha un finale addirittura emozionato, appena appena, un po', un filo di commozione che le stringe la gola. Cita alcuni suoi testi poetici tradotti in canzone , parla di magia della sintesi, dello splendore di una piccola meraviglia in una o due immagini in tutto. "La poesia contestataria, ricca di vitalità polemica e di urto socio - politico" precisa "l'ha inventata De André quattro anni prima di Bob Dylan".
L'augurio conclusivo è rivolto ai giovani: "Ragazzi, i beats, i Figli dei fiori, i poeti zingari della Sessantaseiesima Strada, hanno avuto un sogno che è ormai finito, abbiatene uno anche voi, toglieteci da questo mondo di merda, voi soltanto potete farlo, trovate la speranza, le forza, il coraggio di poterlo fare".

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