Mercoledì 22 Gennaio 2003 - Libertà
Raboni: la poesia ignara testimone civile
Il poeta, drammaturgo, critico teatrale e letterario è il prossimo ospite della rassegna "Testimoni del tempo". "La traduzione è una grande e faticosa esperienza. In Proust c'è tutto"
Giovanni Raboni, prossimo ospite di Testimoni del tempo, è uno dei protagonisti della vita culturale italiana degli ultimi cinquant'anni. Poeta, drammaturgo, critico teatrale e letterario, ex consigliere di amministrazione del Piccolo Teatro di Milano, collaboratore di riviste e giornali e traduttore di grandi poeti come Baudelaire e Apollinaire, è una figura di assoluto rilievo nel panorama letterario italiano dei nostri giorni.
In attesa di incontrarlo a Piacenza venerdì all'auditorium della Fondazione, gli abbiamo rivolto alcune domande sulle sue molteplici attività. Riguardo alla sua ultima raccolta, "Barlumi di storia", è stato detto che i suoi versi sono una testimonianza civile. E' così? La poesia per lei è testimonianza civile? "Sì, credo che lo possa essere. Non è obbligatorio e non è nemmeno un'intenzione, è che succede, nel momento in cui nei miei versi entrano temi che fanno parte della mia vita e della mia reattività. Non prescriverei mai a un poeta di testimoniare sulla situazione della società e su argomenti di attualità, ma se succede penso che sia un valore aggiunto". Uno strumento che è sicuramente testimonianza civile è la sua collaborazione con il Corriere della Sera. "Sicuramente. Quando scrivo sul giornale cerco di parlare di cose che mi sembrano importanti, di letteratura, di teatro o anche, appunto, di argomenti di attualità". Lei ha tradotto grandi poeti e con lei per la prima volta tutta la "Recherche" proustiana è stata tradotta da un solo scrittore italiano. Quanta poesia c'è nel romanzo di Proust? "Tantissima. In Proust c'è tutto, anche la poesia. C'è la filosofia, la critica, la saggistica, la storia... La "Recherche" è un'enciclopedia del Novecento". Quindi è stata un'esperienza importante. "E' stata una grande esperienza. Faticosa anche, perché ci ho messo più di dieci anni, durante i quali ho vissuto momenti di terrore, in cui mi sono chiesto se sarei mai riuscito ad arrivare alla fine. Però mi ha dato moltissimo, perché il rapporto con un testo che si traduce è di un'intimità spaventosa, a volte imbarazzante". Recentemente lei ha cominciato a scrivere anche testi teatrali. Quali possibilità di espressione offre a un poeta questo tipo di scrittura? "A me sembra che offra molte possibilità. Intanto perché scrivendo in versi per il teatro ritengo di mettere a frutto l'esperienza che ho fatto cercando di rendere in poesia la colloquialità, il parlato, che nel teatro ha la sua sede naturale. E poi perché il palcoscenico è una dimensione metaforica in più. E' una cosa che mi sta appassionando molto. Credo di esserci arrivato traducendo per il teatro, cercando una pronuncia ritmica e metrica che si conciliasse con la voce dell'attore, con la dicibilità. Ho visto che mi piaceva e che forse ci potevo riuscire, così mi sono messo a scrivere dei testi miei". Mi sembra di capire, quindi, che le traduzioni le abbiano dato molto. Spesso gli scrittori e i poeti che come lei fanno anche questo lavoro, si lamentano invece di questa sorta di "lavoro forzato" che si fa per poter vivere. "Certo, se le si prende in questo modo le traduzioni sono effettivamente un lavoro piuttosto ingrato, ma se le si prende invece come un prolungamento, una preparazione, una scuola per la propria scrittura non c'è di meglio. Una cosa che dico spesso a chi mi chiede come si impara a scrivere è che se c'è un modo di imparare a scrivere è tradurre un grande poeta e cercare di dargli la voce della nostra lingua". Poesia, narrativa, teatro, riviste e giornali: le manca solo la televisione. Ritiene che ci sia spazio per un intellettuale oggi in televisione? "Temo francamente di no. Io l'ho sempre evitata. Tutte le volte che sono stato invitato a partecipare a quelle trasmissioni cosiddette "di conversazione" ho detto di no, perché mi sembra che siano un mezzo che falsa molto, che costringe ad adottare degli atteggiamenti, a mettersi delle maschere, anche per evitare di fare la figura degli imbecilli. Il mezzo televisivo in realtà sarebbe straordinario e ci sarebbe spazio per tutto, ma non mi pare che nessuno l'abbia mai veramente voluto sfruttare in questo senso. Le trasmissioni culturali che nei decenni hanno avuto qualche senso si contano sulle dita di una mano. Ricordo ad esempio certe trasmissioni di Zavoli. Ecco, quella era buona televisione, quella era buona cultura".
Caterina Caravaggi