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Mercoledì 22 Gennaio 2003 - La Voce Nuova di Piacenza

GIOVANNI RABONI "La poesia è vitale"

Queste strade che salgono alle mura / non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo / bianco e netto, senz'alberi, come un fiume che volta. / dei signori e dei cani. / Da qui alle processioni che recano guinzagli, stendardi / reggendosi la coda / ci saranno novanta passi, cento, non di più: però più giù, nel fondo della città / divisa in quadrati (puoi contarli) e dolce / come un catino... e poco più avanti / la cattedrale, di cinque ordini sovrapposti: e proseguendo / a destra, in diagonale, per altri / trenta o quaranta passi - una spanna: continua a leggere / come in una mappa - imbrocchi in pieno l'asse della piazza / costruita sulle rocciose fondamenta del circo / romano / grigia ellisse quieta dove / dormono o si trascinano enormi, obesi, ingrassati / come capponi, rimpinzati a volontà / di carni e borgogna purché non escano dalla piazza! i poveri / della città. A metà tra i due fuochi / lì, tra quattrocento anni / impiantano la ghigliottina. Le parole sono di Giovanni Raboni (i versi s'intitolano "Città dall'alto"). Giusto oggi, 22 gennaio, Raboni compie 71 anni. Il poeta ,che vive e lavora a Milano, ha attraversato tutta la seconda metà del Novecento da protagonista. Meglio, è stato uno degli assi elaborativi intorno a cui si è addensato il discorso poetico all'interno della letteratura italiana. E venerdì sera sarà a Piacenza, ospite della rassegna "Testimoni del tempo" (promossa da Comune e Fondazione di Piacenza e Vigevano): alle 21 all'auditorium Santa Margherita di via Sant'Eufemia 12 verrà a parlare "Di questo presente".
La sua poesia è considerata "colta", permeata di riferimenti alla poesia internazionale, francese e anglo-americana.
Filippo Ravizza, poeta anch'egli, autore di "Bambini delle onde", gli ha recentemente rivolto una domanda sul destino della poesia italiana, "Quale futuro?"
Ecco la risposta del poeta: "Io credo che la poesia abbia dimostrato – anche in questo periodo che tra l'altro ha visto la fine di una grande fase storica, forse addirittura la fine di quella che si chiamava la modernità - di essere vitale. Una vitalità che per esempio mi pare sia mancata nella narrativa italiana. La poesia invece dimostra di avere gli strumenti per continuare a testimoniare la condizione umana, per aiutare ad esempio o addirittura determinare la sopravvivenza delle lingue minoritarie, tra le quali c'è anche, e va detto a chiare lettere la nostra".
"La Poesia – prosegue Raboni - è proprio il luogo della ricchezza linguistica, della diversità. Per contro il rischio è quello dell'impoverimento progressivo e dell'omologazione che non difende le differenze, dell'appiattimento della lingua omologata universale. E' una prospettiva triste e sciagurata –sottolinea con forza il poeta- e segnerebbe tra l'altro, qualora passasse, la pura e semplice fine della storia della poesia italiana. Una prospettiva triste – scandisce - perché è una bella storia, che ha innervato di sé tutta la poesia europea e non solo…importante è lo scambio tra le culture –aggiunge- non l'annichilimento linguistico non la perdita di identità culturale. Importantissima è la circolazione di tutte le lingue e di tutte le culture, ma fondamentale è anche trovare una definizione della propria lingua, della propria cultura".
Quale, dunque il ruolo dei poeti?
"Per i poeti delle singole culture minoritarie ne va della propria sopravvivenza in senso proprio letterale, non metaforico. E' la lingua madre, la lingua nella quale si è immersi dall'infanzia, la lingua delle letture formative, la lingua usata dall'inconscio per fornire la massima profondità, il più suggestivo numero di associazioni...solo nella lingua che è lingua madre qualsiasi poeta può raggiungere i propri vertici espressivi, il massimo delle proprie potenzialità possibili. Tutte le lingue vanno difese dalla globalizzazione, l'italiano va difeso come un bene prezioso senza il quale non c'è più una letteratura "nostra"".
Giovanni Raboni è nato e vive a Milano dove lavora come funzionario editoriale e pubblicista (ha scritto tra l'altro su "Paragone" e "Quaderni piacentini"). Sono da ricordare anche le pregevoli traduzioni di poeti come Baudelaire e Apolinaire e gli scritti di critica letteraria. Dopo alcune plaquettes uscite all'inizio degli anni Sessanta - annota Olivia Trioschi - ha pubblicato una prima raccolta, Le case della Vetra, nel 1966; ne sono poi seguite molte altre. E' considerato poeta coltissimo, dai numerosi riferimenti alla grande poesia internazionale, francese e più ancora anglo-americana; è d'altra parte assai stretto il contatto con poeti italiani come Fortini e soprattutto Sereni, al quale possono essere fatti risalire alcuni moduli stilistici usati da Raboni. "La sue liriche - prosegue Trioschi - si caratterizzano per l'uso di un ampio spettro di registri linguistici, da quello più "parlato" e informale a quello "burocratico" dei politici o dei verbali giudiziari, in cui si inseriscono momenti di riflessione dal tono volutamente appiattito. Un noto critico ha voluto ravvisare in questo uso spregiudicato di un linguaggio spesso assai poco "poetico" la cosciente e ironica volontà di rappresentare lo smarrimento del ruolo e della "missione" del poeta contemporaneo".
Alcune poesie di Raboni sono state paragonate a graffiti lasciati sui muri della "capitale del Nord" a testimonianza di una vita vissuta ormai come automatismo sonnambulo".
Ecco un'altra sua lirica nota: "Come cieco, con ansia" (da Cadenze d'inganno)
Come cieco, con ansia, contro / il temporale e la grandine, una / dopo l'altra chiudevo / sette finestre. / Importava che non sapessi quali. / Solo all'alba, tremando, / con l'orrenda minuzia di chi si sveglia o muore, / capisco che ho strisciato / dentro il solito buio, / via san Gregorio primo piano. / Al di qua dei miei figli, / di poter dare o prendere parola.
E ancora
"Da qualche anno cerco di invecchiare" (del 1932)
Da qualche anno cerco di invecchiare
anche per suo conto, una primavera,
un'estate dopo l'altra - lui che era
tutto vista e tatto, lui che a mangiare
metteva tanta anima... o annusava
l'aria, invece, come una spezia, come
un cane drogato la droga... o a un nome,
al suono d'un nome sacrificava
ogni altra gioia - lui anzi loro, vite
esiliate prima del giusto, prima
di me, appallottolate sulla cima,
che sbanda, della mia vita, più unite
adesso di prima su questa zattera
scricchiolante, gremita d'invisibile...

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