Domenica 12 Gennaio 2003 - La Voce Nuova di Piacenza
Il furor artistico di ZUCCONI
Il giovane scultore piacentino Christian Zucconi - al quale è dedicata una mostra, "Furia Corporae", che sarà inaugurata sabato 18 insieme al pittore reggiano Fabio Rota, e da me curata, presso la galleria "I 4 gatti arte" di Reggio Emilia (via Migliorati 1/A) - appartiene a quel sempre più raro, nascosto ma sorprendente manipolo di artisti che, sebbene perfettamente consapevoli della modernità e delle sue più o meno aberranti manifestazioni, hanno scelto la strada della "tradizione del nuovo", quella, cioè, di coloro che pongono la necessità espressiva come prima urgenza, senza la preoccupazione di modi e mode, senza il bisogno ossessivo di essere nuovi ad ogni costo, di sorprendere con effetti speciali, materiali anomali e quant'altro che, nell'immediatezza rapida e vorace del nostro tempo, altro non sono che il facile rifugio di sedicenti artisti senz'arte. La scelta di Zucconi parte da lontano ed è sostenuta da una notevole dose di amore e furore giovanili. Da un lato la sua sensibilità, pura e folle, coscientemente incosciente verrebbe da dire ossimoricamente, il suo giovanile entusiasmo e forza lo portano a confrontarsi con un'idea di scultura dalla severità e dalla fatica estreme. Zucconi, infatti, da scultore autentico, quindi fiero d'essere prima di tutto un severo artigiano vocato al più duro dei lavori, non ama i materiali facili dimostrando anche in ciò un'idea di scultura pura, senza tempo e imperitura, creata per vincere la morte e il tempo, per sfidare la natura e i suoi fenomeni ed arrivare, al pari di quei frutti della scultura, chiamati dei ed eroi egizi ed ellenici o dei portali di una cattedrale romanica, lontano, in una posterità tanto misteriosa quanto ambita. Zucconi non si vergogna di guardarsi indietro e di specchiarsi nel Romanico di Antelami e Wiligelmo, nella severità quasi espressionista di Nicola e Giovanni Pisano o nella possanza inquieta, sensuale e ambiguamente virile di Michelangelo. Anche a costo di apparire "antico", di sembrare anacronista, questo giovane "scalpellino" (definizione che so lo renderà felice) dimostra di aver perfettamente digerito la grande lezione di Marini e, soprattutto, Martini (a mio avviso il più grande scultore europeo del Novecento) quando afferma che "la modernità non è una trovata, ma è scoprire nuovamente l'anima delle cose, con l'intensità che circola nell'aria del proprio tempo", è la "traduzione della perenne realtà del mondo in un linguaggio poetico che sia del nostro tempo".
Un concetto severo di modernità che non concede nulla al compiacimento, all'affettazione o all'ostentazione e che certamente gli è derivato anche dalla frequentazione di Paolo Perotti, il più importante e austero scultore piacentino del dopoguerra. E dopo Perotti anche Zucconi pare volersi rifare ed inserire in quella "linea italiana", per dirla con Maurizio Calvesi, che da Wiligelmo a Giuliano Vangi - attraverso Arnolfo di Cambio, Tino di Camaino, Giovanni e Nicola Pisano, Jacopo della Quercia, Donatello, Michelangelo, Arturo Martini, Marino Marini e Giacomo Manzù (al quale aggiungo, io, il mai sufficientemente ricordato e celebrato Augusto Perez) - ha decretato nei secoli, con sorprendente continuità la nostra supremazia nello "sculpere" (o nel plasmare a seconda dei casi).
E credo che la ragione di questo primato sia perfettamente riconducibile anche al Nostro in quanto anche Zucconi, al pari dei suoi modelli vicini e lontani, nutre, lui anarchico anche nel suo profondo misticismo, una fede totale, assoluta e senza ombre, benché inquieta e dubbiosa, nell'uomo, nell'umanità e in quella solitudine che sempre e comunque, inesorabilmente ci accompagna (e che sono certo avrebbe esaltato il grande e sempre più rimpianto Giovanni Testori). Una solitudine fatta di attimi infiniti, fuggenti e sfuggenti, come nell'Eliot del Mercoledì delle ceneri: "Perché io so che il tempo è sempre tempo, e che lo spazio è sempre e solo spazio, e ciò che è attuale lo è una sola volta e in un luogo solo...".
Zucconi trae energia e ispirazione dall'uomo e dai suoi profondi, intimi, a volte indicibili o inconfessati rapporti con la realtà o, meglio, col mondo nel quale è ingabbiato e costretto a vivere, ritrovando la sua poetica e il suo stile che paiono proprio rifarsi, rinnovandosi con energia e originalità, ai più essenziali e profondi valori dell'espressione plastica. Il tutto senza risultare manieratamente antico, senza compiacimento della propria forza, della propria severità, della propria umiltà d'artigiano ("... nell'umiltà, come in tutte le cose, l'esagerazione ingenera orgoglio, e quest'orgoglio è mille volte più sottile e più pericoloso di quello mondano, che per lo più è soltanto una futile vanità" per dirla con Bernanos), ma anzi concentrandosi per rinnovare attraverso una nuova sensibilità e un'ispirazione quanto mai furiosa quella tradizione così ricca e quel patrimonio millenario. Quello di Zucconi e un "furore dell'arte", come lo chiamava Michelangelo, che scaturisce dal bisogno, quasi una necessità di dar forma, mai illustrazione si badi bene, ad un'idea di scultura che coincide con la vita e con la condizione umana; una condizione antica e moderna, fatta di sensi e di spirito contrapposti, di prigionia entro se stessi, di bisogni inespressi, muti, pieni di ansie senza nome, di urli e gemiti ammutoliti, di domande senza risposta e che sfociano, appunto, in quella solitudine che è l'essenza ultima e più sublime della scultura stessa.
Sempre a proposito di Zucconi è da segnalare, infine, la presentazione, il 6 febbraio prossimo all'auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano, della piccola ma preziosa monografia curata dal sottoscritto per i tipi della Tipleco e presentata insieme al professor Stefano Fugazza, direttore della Galleria Ricci Oddi.