Venerdì 10 Gennaio 2003 - Libertà
La signora dal sorriso dolce e incerto
In privato. A tu per tu prima dell'incontro con il pubblico
Ieri sera la sala dell'Auditorium della Fondazione traboccava di gente, con spettatori in piedi anche nella saletta video e molti, moltissimi giovani. Oggetto di questa attesa popolare degna di un cantautore da classifica era una poetessa, Alda Merini.
Una signora dai capelli grigi, dal sorriso dolce e incerto e dallo sguardo verde acqua sempre in cerca di quello dell'interlocutore, che sotto il montoncino da pensionata esibisce una bigiotteria etnica vistosa e coloratissima (è lo stesso tocco di civetteria che, a cena prima di incontrare il pubblico, la porta a mobilitare i suoi commensali alla ricerca di un rossetto: "Si può uscire senza gambe, ma non senza rossetto" ammicca; il provvidenziale cosmetico verrà infine fornito dalla moglie dell'assessore alla cultura Stefano Pareti, avvertita dal marito con una telefonata). A tavola al ristorante "Agnello", un'ora prima dell'inccontro, il critico Eugenio Gazzola, le anticipa: "A Piacenza è molto attesa, qui ha tanti lettori". E lei, con un mezzo sorriso: "Tutti comprano i miei libri e i soldi non si vedono, bisognerebbe fare un'inchiesta". La donna che di lì a poco - con sorprendente metamorfosi - affascinerà il pubblico con discorsi vigorosi e autorevoli, intrattiene i commensali con battute che sono un misto di svagataggine e di brusco, concreto umorismo milanese: dal Poeta "ch'el lavura no" alla vera e propria roulette (verra? non verrà?) che sono gli inviti fatti a lei ("Dovrei prendermi un agente, perché io magari accetto ma poi mi me ricordi no, mi trovo cinque appuntamenti in fila e allora dico che sto male"). Entra in trattoria l'artista Giorgio Milani, che le mostra una pagina dei suoi "Poetari del Cielo": raffigura una porta inquadrata da un imponente arco di caratteri tipografici, ispirata ai versi meriniani "Cos'è la poesia? /...E' una piccola porta/ di cielo/ dove riposa/ il cuore del poeta". Lei indica col dito il sottile lume della porta e bofonchia scherzosamente: "Ma io di qui non ci passo". Quando Merini spegne una sigaretta, conserva il mozzicone per dopo, ("A me piace così"). Un tic che accomuna molti reduci di universi concentrazionari e che sembra una cicatrice della più drammatica esperienza della vita di Alda: dodici anni di internamento in manicomio, dal 1965 al 1977, seguiti da una terribile lotta per riottenere l'affidamento delle figlie. Lei - come tutte le persone provviste di dignità - detesta essere oggetto di compatimento. Ma il dolore di quel tempo (anche se a un certo punto lei si lascia sfuggire un sognante e sibillino: "Eppure anche quegli anni erano belli") emerge di continuo nei suoi discorsi, e nei suoi libri, sia come ricordo che come metafora di una sofferenza più generale: l'abbandono, sociale, affettivo, amoroso. "La clinica dell'abbandono" è il titolo del suo prossimo libro, che Einaudi pubblicherà tra un paio di mesi con un video accluso che vedrà la Nostra intervistata da Vincenzo Mollica. "Sono stata abbandonata per tutta la mia vita", dice Alda. Si sente abbandonata anche oggi che ha l'amore di tanti lettori? "L'ammirazione è una cosa, l'amore è un'altra: mi leggono, mica vengono a letto con me", è la disarmante risposta. Le allusioni al sesso, candide e sfrontate, punteggiano i discorsi di questa donna non più giovane che ride senza emettere suono, con l'espressione gioiosa e fragile di chi conosce gli schiaffi che piovono senza posa su coloro che amano la vita con l'intensità degli innocenti. "Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle / aprire le zolle / potesse scatenare tempesta" recitano i suoi versi più famosi.
Oliviero Marchesi