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Domenica 16 Febbraio 2003 - Libertà

Ugo Locatelli, esploratore dello sguardo

Un giovane studioso piacentino ha dedicato una tesi di laurea, diventata un libro, alle sperimentazioni dell'artista. "L'esattezza della fotografia per captare la realtà, senza descriverla"

Ugo Locatelli misura il mondo con il compasso del suo sguardo. Prende, anzitutto, le distanze. Spoglia l'atto del vedere di soggettività, seziona luoghi, fotografa particolari e li preleva dal contesto, con lo scopo di creare una sorta di spiazzamento, rivelando così, come solo un artista può fare, la fertile ambiguità del reale, la precarietà delle nostre certezze, l'infinita ricchezza di implicazioni del "guardato" che non riusciamo più a cogliere, accecati da troppe immagini. La sua è, sostanzialmente, una grande, poetica lezione, sulla percezione e i processi cognitivi. Domani, a Torino, ci sarà un importante riconoscimento a questo sperimentatore a cui un giovane studioso piacentino ha dedicato la tesi di laurea, diventata un libro. Come nasce la tesi sul decennio "caldo" della tua sperimentazione visiva tra il '62 e il '72, anno in cui partecipasti alla Biennale di Venezia? "Nasce nel 2001. Filippo Lezoli, che non conoscevo, ha avuto l'input da Gloria Bianchino, direttrice del Centro Studi Archivio Comunicazione di Parma, che da tempo mi chiede di conservare parte del mio lavoro. Con Filippo ci siamo studiati e poi piaciuti e si è cominciato un lavoro durato quasi un anno, che ha prodotto uno scavo e un riordino di materiali anche molto lontani nel tempo. Fatica costruttiva. Ne sono uscite quasi trecento schede molto meticolose e un preciso percorso di lettura del mio lavoro. A Luisella d'Alessandro, presidente della Fondazione Italiana per la Fotografia di Torino, la tesi è piaciuta molto e il Museo ha ritenuto di pubblicarla, facendone il primo volume di una collana sulla formazione. Luisa Vescovo, critico e storico dell'arte contemporanea, vi ha scritto il saggio su quanto sto facendo dal '97 in poi". Il fatto di essere "storicizzato" congela, in qualche modo, il tuo lavoro? "Al contrario. Fa centro su un periodo molto intenso, seguito da una lunga pausa di studio e di riflessione che mi ha portato agli ultimi progetti. Gli embrioni di allora, affinati dal mio attraversare il tempo in questi venticinque anni, risultano più visibili nella rilettura. E' un passato prossimo i cui effetti durano nel presente". Cosa guidava la tua sperimentazione? "In Belgio, mia terra originaria, ho conosciuto i lavori di Magritte, l'informale. Nel '58, a 18 anni, vidi un'opera poco nota di Le Corbusier all'Expo, il Padiglione Philips: dentro uno spazio sghembo e irregolare una multivisione percorreva le pareti, suoni andavano e venivano. Mi stimolò. Ho iniziato allora con poche cose a tempera e a china, ma la fotografia aveva per me le potenzialità di un raccordo ramificato, nuovo e significante con il mondo osservabile. Cercavo di verificare cosa succedeva a quello che vediamo con i nostri occhi, attraverso questa sorta di schermo che è la fotografia, un linguaggio promettente rispetto alla possibilità di captare e non di descrivere soltanto. Ad un'immagine diedi il titolo: "Gli occhi delle cose", perché avevo la sensazione che non fosse unilaterale il vedere, c'era anche l'essere osservati, implicazioni che si colgono oggi dalla fisica subatomica, dove si relativizzano molte cose rispetto al nostro abituale ragionamento su causa-effetto, oggetto-immagine e una consequenzialità troppo lineare". I primi soggetti? "Oggetti inanimati, qualche elemento del paesaggio. Non era una ricerca sul risultato estetico, ma per vedere cosa succedeva a oggetti tridimensionali individuati, in un determinato momento, attraverso una trascrizione fotografica e che io riscoprivo una seconda volta quando stampavo. Vale la citazione "Exterior velat, interior revelat": l'immagine non è mai finita, disponibile ad ulteriori esplorazioni nella misura in cui si rinuncia ad un impianto narrativo e si mette in atto un processo di erosione del soggetto". Questi stimoli si specchiano nel tuo lavoro recente, Areale. Qual è la differenza? "Una maggior consapevolezza. Il percorso dei primi anni non fu lineare, oggi riesco a leggere certe cose, allora no. Mi sono affinato, ma sto facendo sempre lo stesso disegno, direbbe Borges". Il tuo percorso si presenta apparentemente freddo e cognitivo, ma vi si legge il pathos generato da un segno poetico. "C'è, in ognuno di noi, un'oscillazione continua, dal freddo al caldo, dal poetico all'ingegneristico. Io ho bisogno, come dice Duchamp, nel fare questo mio lavoro di erosione, di "non preferire", di mettere in campo un atteggiamento di precisione e di indifferenza per liberare il più possibile le potenzialità delle cose. Devo approfondire, togliere veli, fare un packaging asettico del reale, aiutandomi con l'esattezza fotografica". Veniamo ad Areale. Il ciclo avviato dal '97. "Da un anno e mezzo sto lavorando alla terza fase. Dopo "Luogo e trascrizione", "Luogo e dualità", sono ora a "Luogo e relazione". Comporta un prelievo da un luogo, che ancora non conosco, di elementi e di segni. Metterò in relazione interno ed esterno, bianco e nero, micro e macro, per farli interagire visivamente. Non solo parti costruite, stavolta, ma anche transito di umani". Chi è Ugo Locatelli? "Un osservatore e un esploratore, direi".

Patrizia Soffientini

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