Domenica 16 Febbraio 2003 - La Voce Nuova di Piacenza
"Sono diventato dottore con le foto di Locatelli"
Un artista con più di quarant'anni di ricerca alle spalle incontra un giovane studente alle prese con la sua tesi di laurea. Ne nasce un sodalizio che combina due generazioni all'apparenza distanti, ma in realtà mai così vicine. Il primo è Ugo Locatelli, che a partire dagli anni '60, utilizzando il medium fotografico, indaga i linguaggi dell'immagine proponendosi di sottrarre la realtà a sguardi grigi e uniformi, l'altro è Filippo Lezoli, in quel periodo impegnato nel Corso di laurea in Conservazione dei Beni Culturali all'Università di Parma. Dalla tesi è nata una pubblicazione - "Ugo Locatelli 1962-1972. Fotografia, scrittura, sperimentazione" -, edita dalla Fondazione Italiana per la Fotografia di Torino con il contributo della Fondazione di Piacenza e Vigevano (e stampata dalla Tipleco), che sarà presentata domani a Torino nella sede della Fondazione, il 4 marzo all'Accademia di Belle Arti di Genova e l'8 marzo a Piacenza, alla Galleria d'Arte Moderna Ricci Oddi.
Una passione per l'arte, quella di Filippo, che adesso ha la possibilità di manifestare scrivendo sulle pagine culturali de La Voce.
"L'arte mi interessa da sempre, fin dai tempi delle scuole superiori, ed è il motivo per cui sono approdato ad una Facoltà che poco aveva a che fare con i miei studi precedenti".
Una scelta che ha fruttato, dal momento che, ora, la tua tesi è diventata un libro. Da cosa è scaturito questo interesse per la figura artistica di Ugo Locatelli?
"Ero alla ricerca di un argomento che, pur partendo dal contesto piacentino, mi permettesse di spaziare in ambiti nazionali e internazionali. E soprattutto che mi consentisse di trattare un ambito ancora vergine e non logoro da studi".
E così sei giunto a un argomento che ti ha permesso di interessare anche la Fondazione di Fotografia di Torino e una storica dell'arte del livello di Marisa Vescovo.
"Sì, la premessa al libro è stata scritta da Luisella d'Alessandro, presidente della Fondazione, mentre Marisa Vescovo ha firmato un saggio introduttivo dal titolo "L'occhio interminabile" in cui allaccia il periodo da me analizzato - dal '1962 al 1972 - alla produzione più recente di Ugo. Ovviamente sono lusingato dell'interesse mostrato da queste due studiose nei confronti del mio lavoro".
Al di là del risultato raggiunto come valuti questa esperienza?
"È stata un'esperienza che mi ha dato molto, perché mi ha permesso di conoscere non solo l'opera di un artista, ma l'autore stesso, e di ascoltare dalla sua stessa voce il suo approccio al lavoro".
Si parla tanto del carattere eccentrico degli artisti, com'è stato lavorare fianco a fianco con uno di loro, soprattutto dovendo scriverne?
"Questo è uno degli aspetti che mi ha sorpeso. Credo che per un artista sia difficile non cadere nella tentazione di voler in qualche modo guidare quello che uno studente scrive sul suo lavoro. Ebbene questo non è mai capitato, tutt'altro. Sin dall'inizio mi ha chiarito che non avrebbe mai interferito riguardo a quello che avrei scritto, lasciandomi libero di interpretare il suo lavoro come meglio credevo. Ed è stato di parola, forse anche perché ci siamo da subito trovati in sintonia".
Quali strade ti hanno portato a Ugo Locatelli?
"Attraverso il preside del liceo artistico Cassinari sono entrato in contatto con alcuni studiosi, da lì, passare alla ricerca di Ugo è stato facile specie per uno come me, appassionato di fotografia. Ho colto in lui una modalità di utilizzare la macchina fotografica che mi ha intrigato da subito. Per così dire anticonvenzionale, in grado di mostrarci dei brani di realtà in maniera del tutto nuova".
Hai parlato di un utilizzo anticonvenzionale della macchina fotografica. Cosa intendi?
"Un modus operandi, quello di Ugo, cui ha attinto anche quando, abbandonando la macchina fotografica, si è avvicinato all'universo della Scrittura e all'Arte Concettuale, entrando nel vivo del dibattito artistico di quegli anni, anche a livello internazionale. Mi riferisco ai legami con Ben Vautier del Gruppo Fluxus e con Sebastiano Vassalli. Devi inoltre pensare al panorama artistico piacentino degli anni Sessanta, dove si palesava una mancanza di aggiornamento sulle nuove correnti artistiche e nel quale chi adoperava un mezzo meccanico come la fotografia non era considerato artista. Un'opera d'arte si misurava in base alle ore necessarie alla sua realizzazione".
Una parte del libro, infatti, riprende i dibattiti che impazzavano sulla stampa locale in quegli anni, a proposito di cosa poteva o non poteva essere considerato arte, e della cosiddetta arte d'avanguardia.
"Ti riferisci alle polemiche che seguirono l'esposizione del Gruppo A - di cui con Locatelli facevano parte Xerra, Armani, Tagliaferri e Vescovi - quando alcuni critici si sollevarono definendo opere di retroguardia, e non di avanguardia, quelle in mostra. Un errore di valutazione, forse comprensibile nel panorama nazionale, ma di certo non a Piacenza dove invece quelle opere rappresentavano qualcosa di nuovo e l'unico vero tentativo di fare sperimentazione. Molta parte del lavoro si è basata infatti sulla ricerca di fonti che ricostruissero il dibattito critico, che vide coinvolti i più importanti studiosi piacentini".
Dopo questa esperienza gomito a gomito con Locatelli, com'è adesso il tuo approccio con gli artisti quando devi scrivere sul loro lavoro?
"Benché non abbia troppa esperienza, credo che la prima cosa da fare sia accostarsi a loro, e al loro lavoro, senza alcuna presunzione di sapere a priori l'essenza delle loro ricerche artistiche. Così come ho imparato dall'atteggiamento di Locatelli nei miei confronti, in questa esperienza che è stata anche un'esperienza formativa".