Domenica 16 Febbraio 2003 - La Voce Nuova di Piacenza
ARBASINO a Piacenza "Scrivere come vivere"
Scrittore, saggista, narratore, commentatore, recensore, intervistatore, Alberto Arbasino sarà il protagonista della prossima serata alla Fondazione (lunedì 24 febbraio, alle 21) che aprirà il terzo ciclo della rassegna "Testimoni del tempo". Vogliamo presentarvelo in anteprima ricordando il suo famoso successo, "La bella di Lodi" - nel '63 film e nel 2002 ristampato da Adelphi -, che quasi "confina" con la nostra provincia: la protagonista di questa commedia d'amore e soldi, piuttosto realistica (tra una splendida ragazza possidente e prepotente e un intraprendente meccanico, molto attraente e sexy) è ambientata poco al di là del Po. Siamo in pieno boom italiano. Al di là dei conflitti di classe, i due finiscono presto energicamente avvinghiati, strapazzandosi in luoghi non propizi, lungo l'Autostrada del Sole appena aperta: raccordi, svincoli, autogrill, garage, motel. Ma non si tratta solo d'amore. La coppia deve fare i conti anche con altri aspetti importantissimi nella vita italiana di sempre: lavoro, famiglia, società, motori, differenze patrimoniali, musica leggera.
L'autore fu presente sui luoghi accanto al regista Missiroli: "Mi ha interessato, mi ha divertito anche abbastanza, malgrado le grandi fatiche, trattandosi di un film fatto con grande economia di mezzi. Addirittura avevo pensato di scrivere un libro sul film, che era molto girato in esterni, tra Lodi e Modena, e quindi c'era la possibilità di raccontare anche gli incontri, la stagione… - dirà in un'intervista a Gabriele Pedullà - . La sensazione che ho avuto è stata simile a quella che ho provato quando ho cercato di fare delle regie d'opera e di prosa (avevo fatto a Bologna la Carmen diretta da Pierre Dervaux con cantanti della Scala e La Traviata all'opera del Cairo con Franco Mannino, mentre qui a Roma, per lo Stabile di Roma, quando c'era Vito Pandolfi, avevo diretto Prova inammissibile di John Osborne)".
Nella sua lunga esperienza, Arbasino ha creato un proprio genere e stile, un "journal ininterrotto", come direbbe Italo Calvino. Inventivo, curioso, "leggero", Arbasino possiede la frivolezza dei grandi moralisti: "Scrivere come vivere, vivere come scrivere: viaggiare, ascoltare, visitare, parlare, leggere, partecipare".
Ripassiamo la sua biografia: nato a Voghera nel 1930, laureato in diritto internazionale all'Università di Milano, pubblica il suo primo racconto nel 1955, su "Paragone" – Distesa d'estate – "in cui già si delineano i temi della sua produzione successiva: dal clima di chiusura della provincia italiana postbellica all'atmosfera pettegola delle ville e dei salotti al viaggio, inteso da un lato come diporto, divagazione turistica e dall'altro come pretesto per una critica sociale e culturale". (Garzanti Letteratura)
Collaboratore di alcune importanti riviste come "L'illustrazione italiana", "Officina", "Il Mondo", "Tempo presente", "Il Verri", e di alcuni periodici e quotidiani nazionali, è stato uno dei protagonisti dell'avanguardia letteraria degli anni ‘60 e del Gruppo 63, ed è uno degli scrittori italiani contemporanei più fertili e più stimati all'estero. Discendente dalla tradizione poetica di Carlo Emilio Gadda, nel ricorso alla lingua parlata, spesso contaminata dai dialetti locali, con "Il ragazzo perduto", Arbasino dà una delle sue prove più importanti e incisive: viene pubblicato per la prima volta nel 1959 da Feltrinelli come racconto lungo, in un'edizione di racconti; quindi nel 1966 (Feltrinelli) con il suo titolo definitivo, "Anonimo lombardo" e successivamente ripubblicato nel 1973 da Einaudi e infine, 1996, da Adelphi, secondo un'abitudine di revisione e riscrittura che interesserà quasi totalmente l'opera di Arbasino. Si tratta di un romanzo epistolare ambientato nella Milano miracolistica degli anni ‘50, in cui un intellettuale condivide con il lettore, le ansie di un amore omosessuale, somministrate in parti uguali insieme alle riflessioni sulla poetica del romanzo che sta scrivendo, a metà tra la farsa e il trattato critico-letterario.
E' "Fratelli d'Italia", (Feltrinelli, 1963, Einaudi 1976, Adelphi 1993) il libro che lo accrediterà e che gli spalancherà le porte del Gruppo 63. "In esso l'Autore cerca di conciliare i due corni del suo problema, cioè di portare, da un lato, a un'espansione inaudita l'accumulo, il descrittivismo, l'elenco; ma di assicurare, dall'altro, un minimo di struttura, di architettura, di criterio distributivo tra questi cerchi e gironi di una sua "commedia" all'altezza dei tempi". (Barilli)
Quella di Arbasino è un'osservazione distaccata della realtà, élitaria, beffarda, sempre pronta a disimpegnarsi nell'ironia, una critica che non costruisce né distrugge, ma è strumentale a un ipertrofico sfoggio di erudizione, un accumulo sfrenato di cultura, anche questo soggetto ad ironia e sbeffeggio.
La sua fertile opera letteraria spesso s'incrocia con il cinema: sono il cinema a la possibilità di fare un film a ispirare la stesura de "Il principe costante", (Einaudi, 1972), nato come testo per il Teatro del Porcospino, l'avventura teatrale di Alberto Moravia e Dacia Maraini, e concepito inizialmente per la regia di Luca Ronconi. Carmelo Bene, reduce da una permanenza a Fez, in seguito se ne innamorò e si appropriò del progetto. Ma in questo caso le luci della ribalta elusero le fortune del testo. Ben diversamente erano andate le cose con La bella di Lodi, portato in libreria da Einaudi (1972), che nel 1963 era stato oggetto di una trasposizione cinematografica. Il film venne diretto da Mario Missiroli, che era stato assistente di Valerio Zurlini, ma Arbasino partecipò alla sua genesi fin dalle fasi del trattamento e della sceneggiatura e sedette a fianco del regista durante le riprese.
Premio Bagutta '94, la sua ispirazione letteraria si nutre di ripetuti viaggi, ma senza mai perdere vizi e miserie del popolo italiano: in Paesaggi italiani con zombi, Adelphi, 1998 Arbasino veste i panni del censore dell'Italia contemporanea e parla severamente di superficialità, di condiscendenza, di complicità, di vetero-provincialismo, di parassitismo, d'egoismo, d'ignoranza, di vacuità, di chiacchiera al posto del discorso, dell'oscenità che rimpiazza l'umanità intellettuale. Una bella tirata d'orecchi.
Nel 2000 con Le muse a Los Angeles (Adelphi, 2000) – sui santuari new wave dell'arte, ma soprattutto sul nuovo, colossale Getty Center – vince il premio P.E.N. Italiano.
Del 2001 è Rap! (Feltrinelli), una raccolta di composizioni quasi-poetiche, un concerto scatenato di temi, dalla cultura al trash, a ritmo di... rap, appunto. Settantun'anni, ma non li dimostra. Con questo libro l'autore, che da molti anni vive a Roma, ha ricevuto il premio Ennio Flaiano per la satira.