Sabato 8 Febbraio 2003 - La Voce Nuova di Piacenza
"Ma gli italiani sanno scegliere LIBRI di qualità"
"Vi presento Adelphi…". Si è aperto con queste parole alla Fondazione di Piacenza e Vigevano l'incontro conclusivo del secondo ciclo di Testimoni del Tempo, serata che aveva come protagonista Adelphi, o per meglio dire Roberto Calasso. La storia dello scrittore ed intellettuale fiorentino, che nel 1962 insieme all'amico Roberto Blazer, Luciano Foà e Bobo (Roberto) Olivetti fondarono l'Adelphi, è, infatti, indissolubilmente intrecciata a quella della casa editrice, e per certi versi è la medesima. "Il giorno in cui ho compiuto ventun'anni - ha esordito Calasso - Blazer mi propose di fondare una casa editrice. L'idea era quella di dare voce a tutti quei libri che, in un clima culturale come quello italiano di allora reduce di vent'anni di fascismo e pieno di contraddizioni e paradossi, non avrebbero mai visto la stampa". È iniziata così un'avventura editoriale che dura ormai da quarant'anni e che, dal ‘62 ad oggi (il primo libro pubblicato fu nel '63 Robinson Crusoe) è rimasta fedele alla politica di pubblicare "solo i libri che piacciono all'editore, anche se dai dieci di allora siamo passati ai settanta di oggi". Colloquiando con il docente di filosofia Franco Toscani, che gli ha fatto da primo interlocutore, e stuzzicato dalle domande dei presenti, Roberto Calasso ha ripercorso, passando anche attraverso i libri che portano la sua firma - da Le nozze di Cadmo e Armonia, a La letteratura e gli dei, fino ad arrivare all'ultima pubblicazione K - , le tappe storiche della casa editrice che fin dal primo giorno "ha remato contro corrente" proponendosi come un'alternativa di qualità. "Inizialmente abbiamo dovuto scontrarci con un muro di scetticismo, soprattutto legato alla Biblioteca Adelphi, che oggi è la collana più venduta, ma allora fu guardata con sospetto. In molti, i primi anni di produzione, si chiedevano: ma cos'è questa collana? Il motivo era l'eterogeneità dei generi e degli autori trattati. Si andava da "L'altra parte di Alfred Kubin" a I trattati sul teatro N? di Zeami Motokiyo, poi c'era "Padre e figlio" di Edmund Gosse e infine Artaud e i suoi Tarahuma. All'apparenza sembrava una collana squinternata. Col tempo le cose sono cambiate, i librai e i lettori hanno capito le finalità della collana, lo dimostra il fatto che oggi in tutte le librerie sono presenti tutti i numeri della Biblioteca dal primo in avanti".
Lo sguardo al passato, in cui ha trovato posto un commosso ricordo dell'amico Blazer - "Un genio nel senso latino del termine, un uomo che si è trovato a vivere in una cultura che, riuscendo a comprendere solamente l'otto o il nove per cento di quello che lui conosceva, non poteva capirlo, e lo ha etichettato come "lo strano triestino", che parlava di letteratura, ma non scriveva. Non sapendo, o non volendo sapere, che lui non scriveva semplicemente perché riteneva che scrivere un libro non fosse la cosa più importante, bastava esistere. Ricordo una frase ripeteva in continuazione e ben stigmatizza la sua personalità: Un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva, oggi si nasce morti e a poco a poco, se si riesce, si vive". -, si è concentrato, stuzzicato anche da Pier Giorgio Bellocchio, sulla polemica, nata nel ‘73 e proseguita per anni, fra Cases e Calasso. "Tutto è cominciato a causa di una mia recensione, non proprio entusiastica, pubblicata sul Corriere della Sera in relazione alla pubblicazione di un libro di Gottfried Benn. La traduzione che era stata fatta era pessima, piena di errori e imprecisioni, ma quello che maggiormente mi aveva infastidito era la prefazione. Una prefazione in pieno stile italico, tesa unicamente a mettere le mani avanti. Il procedimento era, allora, di uso comune quando si pubblicava un autore "scomodo", uno di quelli che non si potevano ignorare ma che "andavano trattati con cautela". Gli si faceva una prefazione che, in altre parole, avvertiva i lettori di "usare il libro con tutti gli accorgimenti del caso". La mia critica era qualcosa di tecnico, ma Cases, capì, con vent'anni di anticipo, che c'era qualcosa di più. E scrisse un saggio avvelenato su i Quaderni Piacentini nel quale citava autori che di lì a poco sarebbero divenuti firme della Adelphi". "Posto che non esiste una cultura di destra, almeno in Italia, - ha proseguito Calasso - e che sotto questo appellativo la sinistra ha messo tutto ciò che non riusciva a capire, il punto non era la solita vecchia storia degli autori con un passato politico, quelli i cui nomi si fanno subito per mettersi la coscienza a posto. Dobbiamo ricordare che fra le nostre firme spicca quella di Simon Weil che certo non aveva un passato compromettente. Il discorso era ben più complicato e Cases lo aveva capito, individuando il fenomeno Adelphi".
Il nome di Simon Weil ha aperto la via della polemica fra Adelphi e la Chiesa Cattolica. "La Chiesa ci ha accusati di appropriarci di autori suoi, dei quali in realtà non sapeva nulla, e di accostarli in un calderone neo pagano ad altri quasi "eretici". Ma come si poteva conciliare il pensiero religioso di Simon Weil con l'immagine ufficiale della cultura cattolica?"
Non sono mancati momenti di riflessione sul presente legati alla prossima uscita del secondo numero di Adelphilandia, - ("tentativo di") rivista letteraria che già aveva visto la luce nel '71, in un numero unico, e che ora, dopo una versione on-line su Internet, è stata riproposta con successo grazie al "suo modo di adeguarsi alla cultura e all'intelligenza dell'uomo odierno, che non è, e non può essere monotematica" - che Calasso ha sfruttato per esprimere la sua opinione sul non-problema di un'Italia che non legge. "Non è corretto dire che c'è una crisi dell'editoria. Se è vero che gli italiani non leggono in quantità consistenti, è altrettanto vero che hanno un ottimo criterio di giudizio nella scelta dei testi. Quello che conta, non è leggere tutto ciò che ci capita fra le mani, ma leggere libri di qualità. Quindi non lamentiamoci di un problema che non esiste".
Per concludere - chiede una voce fra il pubblico - il segreto di quarant'anni di successo?
"La riconoscibilità del nostro prodotto. Fin dall'inizio abbiamo utilizzato una gabbia grafica semplice che abbiamo derivato da un grafico della metà dell'Ottocento, e non l'abbiamo mai cambiata. La riconoscibilità è una questione importantissima, soprattutto oggi che abbiamo un flusso di informazioni smisurato cui non corrisponde un uguale produzione di conoscenza. Le forme sono molto più eloquenti e significative di quanto si possa pensare. Il mondo dell'editoria contemporanea sta andando sempre di più su un terreno tortuoso, un terreno già percorso da altri in cui nessuno sembra più sforzarsi di inventare nulla. Il nostro profilo, in questo frangente diventa simbolo di qualità".