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Domenica 2 Febbraio 2003 - Libertà

Col Mosaik Group un ironico gioco musicale

Armonie klezmer hanno chiuso con successo a Rottofreno la rassegna "Cultur&Colori"

L'ultimo appuntamento di Cultur&Colori ha celebrato l'esotismo yiddish del Mosaik Group. La fortunata rassegna, organizzata da Comune, Provincia e Fondazione di Piacenza e Vigevano, in collaborazione con l'associazione culturale Tetracordo e l'Arci, ha offerto, nell'arco di un ampio lasso temporale, una serie di concerti "etnici" e non, che hanno ben illustrato quanti (e quali) siano i battiti sonori che scandiscono il ritmo del cuore musicale della nostra società multicolore. La conclusione dell'altra sera, ad opera del Mosaik Group, è stata caratterizzata dall'eccentrico proporsi della musica ebraica, spesso impenetrabile e misteriosa, pervasa com'è da un'ironia mordace e lancinante che non manca di comunicare la sua umanità anche quando talvolta non è accompagnata da un vero e proprio testo. Il Mosaik Group, composto da Maurizio Dehò (violino), Maria Colegni (voce), Gianpietro Marazza (fisarmonica), Luigi Maione (chitarra) e da Luca Garlaschelli (contrabbasso), si è formato all'interno della TheaterOrchestra di Moni Ovadia. Un dato che potrebbe apparire irrilevante agli effetti della serata alla quale ha assistito il folto pubblico che ha riempito il teatro parrocchiale di Rottofreno. Ed invece è proprio questa estrema vicinanza alla cultura ebraica (nella persona di Ovadia, naturalmente) che ci può aiutare a capire come questi cinque artisti abbiano potuto così ben penetrare il senso profondo dei variegati umori Klezmer. Dehò, violinista-narratore ha preso per mano i presenti, per "introdurli" ai tanti testi (e sottotesti) raccontati da questa musica popolare, nata storicamente dall'incontro-scontro con altre culture (quella tzigana-gitana, ma anche quella sudamericana). E allora ecco una serie di bozzetti che hanno raccontato tutto l'universo nomade di questo sound: dalle ballate per non dimenticare l'Olocausto alle musiche da matrimonio, per giungere in seguito ad un'ispirata cover di Piazzolla (Milonga de ternura) e al gypsy jazz di Django Reinhardt. La versatilità e la vis polemica dei quattro musicisti (cinque, quando la voce della Colegni si unisce al quartetto) ha spesso colto nel segno, riuscendo davvero a rappresentare "l'altro" mondo. Talvolta, la pungente ironia di Dehò ha forse difeso eccessivamente i diritti degli outsider che provengono dalla Mitteleuropa ("L'unica cosa che rende piacevole i viaggi in metro a Milano è il suono delle minibande gitane, a volte davvero dotatissime"), ma l'intera operazione, amorevolmente filologica e accorata, è sembrata cosa leggera e profonda insieme, frivola e storicizzante. Un concerto che ha rappresentato la degna conclusione di un'esperienza culturale ostica, ma appagante. Né puro intrattenimento, né puro svago, considerando che spesso lo spettatore è stato trasportato in una dimensione certamente aliena: solo il desiderio di capire, almeno per una sera, che a questo mondo non siamo soli.

raf.

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