Martedì 13 Maggio 2003 - Libertà
Gregotti: "Il progetto, dialogo con l'esistente"
Intervista all'architetto che sarà ospite giovedì sera di "Testimoni del tempo"
Torna giovedì prossimo alle 21 in Fondazione "Testimoni del tempo", con un altro grande protagonista della storia italiana dei nostri tempi: Vittorio Gregotti, uno dei più importanti architetti sulla scena italiana e internazionale, autore di prestigiosi progetti, come il recente recupero dell'area industriale della Bicocca a Milano, dove è stato realizzato il nuovo teatro degli Arcimboldi. Nato a Novara nel 1927, Gregotti si è laureato in architettura nel 1952 al Politecnico di Milano.
Ha poi insegnato nelle facoltà di architettura di Venezia, Milano, Palermo, oltre che a Tokyo, Buenos Aires, San Paolo, Losanna, Harvard, Filadelfia, Princeton, Cambridge (Gran Bretagna) e all'M.I.T. di Cambridge (Massachusset). Dal 1953 al 1955 è stato redattore di Casabella; dal 1955 al 1963 caporedattore di Casabella-Continuità; dal 1963 al 1965 direttore di Edilizia Moderna e responsabile del settore architettura della rivista Il Verri; dal 1979 al 1998 è stato direttore di Rassegna e dal 1982 al 1996 direttore di Casabella. Dal 1984 al 1992 ha curato la rubrica di architettura di Panorama, dal 1992 al 1997 ha collaborato con il Corriere della Sera e dal 1997 collabora con la Repubblica. Nel 1974 ha fondato la "Gregotti Associati s.r.l.", lo studio di progettazione, di cui è presidente, che si occupa di diverse tipologie architettoniche, dalla pianificazione territoriale e al progetto urbano, e che ha elaborato centinaia di progetti, distribuiti in oltre venti paesi in Europa, America, Africa e Asia. La redazione di progetti di grandi dimensioni costituisce uno dei maggiori impegni della sua attività. Qual è l'approccio che segue nella realizzazione di questi lavori? "Il problema è ascoltare il posto in cui si è, il tempo in cui si è e le esigenze che ci sono. Vale a dire fare un po' di posto agli altri, perché secondo me il progetto è sempre una forma di dialogo con quello che esiste, una modificazione di quello che esiste. Non si tratta di inventare il mondo o di creare una situazione completamente nuova: si tratta sempre di faticose modificazioni. Bisogna impostare un rapporto con il paesaggio, con la storia, con le ragioni per le quali una certa cosa nasce e vedere in che modo si può riflettere criticamente su una certa situazione e utilizzarla per il cambiamento. Questa, in spiccioli, è la mia filosofia complessiva". Lei sostiene che in Italia sia in atto il tentativo di espellere l'architetto dall'universo tecnico, di responsabilità sociale e di durata e di collocarlo nel ruolo di puro specialista degli aspetti decorativi della costruzione. Perché, secondo lei? "Per molte ragioni diverse. Un po' perché gli edifici sono diventati delle macchine molto complesse e molto costose, dove gli aspetti tecnici ed economici diventano prevalenti e si viene a creare così una situazione difficile da dominare da parte dell'architetto. Un po' perché gli architetti spesso rincorrono un successo che è legato a un'idea dell'architettura più vicina al disegno industriale, alla moda, a questo tipo di cose, e quindi a un'idea di provvisorietà più forte, per cui oltre a esserci un'espulsione c'è un'autoesclusione da parte delle giovani generazioni di architetti". Di fronte al tema, di grande attualità, del recupero delle aree industriali dismesse, come deve porsi il progetto di architettura? "Credo che questo sia uno dei grandi temi che non sono stati affrontati molto bene in Italia, nel senso che non si è utilizzata questa occasione per trasformare stategicamente la città, non si è fatto un discorso complessivo e si sono utilizzate le occasioni caso per caso. Noi, per esempio, abbiamo fatto tanti interventi di recupero di aree industriali dismesse - e ne stiamo facendo ancora - in città piccole e grandi e se in una città media come Cesena, in cui stiamo lavorando da alcuni anni, questo discorso complessivo è stato fatto, a Milano questa operazione è stata realizzata invece molto meno, e in altre città dove abbiamo lavorato - a Torino, nel centro Italia, ecc. - si è trattato di una situazione isolata che è toccato a noi come architetti cercare di radicare nella realtà locale piuttosto che alle società immobiliari". Di tutti gi incarichi che ha svolto, quale le ha dato più soddisfazioni? "Sono molto affezionato a un lavoro che abbiamo fatto una decina di anni fa a Lisbona. Si tratta di un grande centro culturale realizzato su un concorso vinto, che mi ha dato grandi soddisfazioni innanzitutto perché mi ha fornito l'opportunità di conoscere molto bene il Portogallo, che è un paese straordinario, e poi perché è un lavoro che ha avuto successo, anche di pubblico, e che, dopo le molte difficoltà e dopo i molti problemi che sempre si incontrano, adesso funziona socialmente molto bene".
Caterina Caravaggi