Martedì 6 Maggio 2003 - Libertà
Cavallari, elogio dell'indipendenza
Fondazione - La figura del giornalista piacentino nelle parole di Martinelli, de Bortoli, Silvestrini e Magris. "Un grande esempio di onestà intellettuale ed autonomia"
Giornalista di razza, uomo libero, dal carattere ruvido e volubile negli umori. Aperto e ombroso, temerario e schivo. Capace di folgoranti intuizioni, di legami assoluti e di tener "dritta" la schiena a tante pressioni. Campione di onestà intellettuale, "genio" dell'amicizia. E' il ritratto che si è meritato Alberto Cavallari, il giornalista piacentino scomparso cinque anni fa. A comporre questo profilo pubblico e privato, senza toni agiografici, ma pieno di nostalgia per una figura esemplare del giornalismo italiano, sono gli amici, i colleghi, gli uomini del "Corriere della Sera" con cui Cavallari ebbe a che fare lungo tutta la sua carriera, ma specialmente durante il momento critico dei tre anni di direzione del quotidiano (1981-1984), messo in ginocchio dallo scandalo P2. A Cavallari la Fondazione di Piacenza e Vigevano ha dedicato un convegno nazionale che ha radunato giornalisti, personaggi illustri, intellettuali, per celebrare questo piacentino formidabile nato in via della Ferma.
Giancarlo Mazzocchi, presidente della Fondazione, spiega le ragioni di un'iniziativa fortemente voluta dall'ente di via Sant'Eufemia per ricordare "l'intellettuale di rilievo che Cavallari è stato", riconosciuto specialmente all'estero. E il sindaco Roberto Reggi saluta la memoria di un "grande concittadino", esempio di quelle eccellenze piacentine che non mancano in giro per il mondo. L'auditorium della Fondazione è strapieno, si respira l'orgoglio dei piacentini che lo conobbero, o se lo ricordano avendolo incrociato in qualche passeggiata bettolese, su in collina. C'è chi, tra i militanti e i dirigenti della sinistra, racconda un aneddoto poco noto ma succulento: nel '93, con la mediazione di Pierluigi Bersani, fu esplorata la possibilità che Cavallari si candidasse a sindaco di Piacenza. Il giornalista si tenne qualche giorno di riserva, forse solo per buona educazione, poi declinò l'offerta. Ad altri, a qualche compagno d'infanzia, resta un sapore intimo da gustare, mentre l'indipendenza e l'autonomia del giornalista, l'affetto strano che sapeva suscitare, quel suo carattere mercuriale è affidato ai "corrieristi", ai tanti uomini del più grande quotidiano italiano, di età diverse, ma richiamati a Piacenza da un'antica fedeltà. E poi parlano gli ospiti di rango.
Il direttore
"Sei mesi prima che morisse, andai a Parigi a trovarlo, mi chiese se era possibile che fosse rivisto il processo (Cavallari aveva subìto una condanna a seguito della querela per diffamazione mossa dal capo del Governo Craxi, ndr), gli mentii per l'ultima volta. Sì, gli dissi, è possibile, non era vero, la querela era stata ritirata". C'è una commozione trattenuta a fatica nelle parole di Roberto Martinelli, vice-direttore di Cavallari durante la direzione del "Corriere". "Erano gli anni in cui il giornale era la preda, il gioiello da prendere, gli anni della P2, un'organizzazione non di eversori ma di affaristi che volevano occupare posizioni. Alberto difese il giornale con le unghie e con i denti e lo consegnò, risanato, ai nuovi proprietari". E poi mille aneddoti mescolati: le telefonate ingombranti, ma mai subìte, dei segretari di partito, quell'abilità di scavare nella notizia fino all'ultimo "come quando aprimmo il giornale a sette colonne dando, diversamente da altri, la notizia delle condizioni disperate di Berlinguer". E ancora l'esortazione di Sandro Pertini a reggere il timone del Corriere e quell'ideale accarezzato: "il diritto dei cittadini ad un'informazione corretta, reale ed onesta".
"Volevo che tornasse" Ferruccio de Bortoli, direttore attuale del "Corriere della Sera", avrebbe rivoluto Cavallari al giornale, come collaboratore illustre. "Non ci sono riuscito in tempo, ma si sarebbe trovato bene" dice. E' de Bortoli a descrivere un uomo dalle passioni forti e dagli umori volubili, refrattario alle finzioni, per nulla attratto dal potere politico che un poco disprezzava "dall'alto della sua cultura". Un uomo che "sembrava sempre altrove" e un po' fuggiva come Tolstoj, un po' aveva l'ingenuità di Robinson Crusoe. Visse anche la "straordinaria solitudine del direttore e si amareggiò per gli attacchi personali", fiero invece di pochi riconoscimenti, come la Legion d'onore assegnatagli da Mitterand nell'82. "Da redattore economico gli chiesi una voltà perché sull'Ambrosiano non usassimo notizie nostre ma quelle dell'Ansa. Allora non hai capito, mi rispose". Capì più tardi, de Bortoli, quella lezione di imparzialità per preservare il quotidiano da ogni accusa quando si doveva scrivere di situazioni e personaggi che avevano a che fare con la proprietà. "Fece errori, ma sempre in buona fede e diceva: il direttore è un uomo solo che sbaglia più della media". Ma lui, Cavallari, seppe tuttavia lasciare il "Corriere" a testa alta, ridando "dignità e fierezza ad una redazione umiliata".
Interrogò la Chiesa da laico "Cavallari ebbe enorme scrupolo e intelligenza per la verità, per aiutare la gente a capire, rese questo servizio alla Chiesa da giornalista e da laico". Il cardinale Achille Silvestrini rievoca quella prima intervista mondiale ad un Papa firmata da Cavallari. "Colse in Paolo VI non l'amletismo o la lacerazione, non il rigore contro la simpatia di Roncalli, ma la circospezione, la riflessività e il realismo, restituì l'immagine di un Papa guardingo più che contraddittorio, deciso però ad andare avanti nel suo percorso". Un profilo che al Papa piacque e che scolpì nella mente dei lettori l'immagine di quelle sue mani "fragili". E questo tratto, il desiderio di "capire", ritorna nel rapporto che Cavallari ebbe con la Chiesa presa da grandi cambiamenti e su cui distese uno sguardo "senza preconcetti", preferendo "l'interrogazione al giudizio".
Il "genio" dell'amicizia E' l'amico Claudio Magris che riconosce a Cavallari il "genio" dell'amicizia e della giustizia. Parole condite da un affetto palpabile ("Ho la sensazione della sua presenza che continua ad agire nella mia vita"). Non ci sono solo i tre anni storici alla direzione del "Corsera" sostiene Magris, c'è anche lo scrittore da ricordare, autore di volumi importanti. "Aveva il mestieraccio del giornalista, l'istinto del segugio, l'occhio rapace che si butta grifagno a catturare pezzi di realtà, ma pure il senso dei sapori delle cose". Magris loda quel "Vicino & Lontano" dove il registro passava da grandi fatti a cronache minime, con una prospettiva miope e presbite insieme. E ancora descrive di Cavallari la dimensione morale, mutuata dai moralisti francesi, l'inclinazione politica liberaldemocratica, il gusto nomade della vita alla Roth, la vena esistenzial-cristiana alla Camus. Anche dalle parole di Magris emerge un "uomo versatile, con grande apertura alla vita e a volte ingegnuo, conoscitore del mondo, con qualcosa di molto vulnerabile, capace di scoppi di collera anche ingiusti, insieme all'assoluta lealtà e fedeltà". Un episodio tra amici? Quella preoccupata visita di controllo al Centro Tumori di Milano di Magris, che Cavallari trasformò in un momento esilarante "con un'entrata teatrale insieme ai suoi uomini della scorta armata, in mezzo a medici e pazienti".
Patrizia Soffientini